
Come forse saprete, gli alti e bassi della pratica sono prevedibili e inevitabili. In effetti, uno dei segni di una pratica matura è ricordarsi di anticipare le fasi calanti, mettere in conto le resistenze e sapere quali misure prendere.
Ad esempio, dopo aver fatto alcuni ritiri sappiamo che sei un ritiro è stato particolarmente intenso è probabile che ci troveremo alle prese con una resistenza di pari intensità. Magari non subito, ma prima o poi è facile che cada. Qualcosa misura prendere in caso di resistenza? Che altro, se non perseverare?
Perseverare significa avere costanza, a prescindere dal nostro stato d’animo. Anche se siamo demotivati, o non ricordiamo più cosa ci spinge a replicare, sappiamo almeno che non dobbiamo demordere. Sappiamo, almeno, di dover fare atto di presenza. In effetti, perseverare malgrado lo scoraggiamento e la resistenza è spesso l’occasione migliore per imparare. Per tutti arrivano i momenti in cui la resistenza può essere forte, in cui sentiamo di aver perduto l’aspirazione. Chi non ha mai pensato: “non ci riuscirò mai “, non sarò mai capace di impegnarmi quanto dovrei”, oppure “a che serve?” Eppure, continuare a praticare, perseverare, anche quando non ricordiamo perché, è un modo per imparare ad andare a fondo nella vita. Restare con l’esperienza viscerale o fisica del dubbio, del sapere di non sapere, è la via d’accesso più diretta alla pratica.
In concreto la perseveranza si traduce, ad esempio, nel meditare tutti i giorni, che ci vada o no. Oppure nel frequentare regolarmente un centro di pratica e partecipare ai ritiri, anche se spesso preferiremmo essere altrove. Inoltre, perseveranza significa restare presenti alle esperienze più difficili, anche solo per la durata di tre respiri, e anche quando una parte di noi vorrebbe fuggire nei pensieri, nelle fantasie, nei giudizi, nelle accuse, o in un’altra delle nostre scappatoie preferite. La perseveranza richiede un certo tipo di coraggio, il coraggio di esaminare a fondo le proprie convinzioni, in particolare le illusioni su di sé. Richiede anche il coraggio di riflettere sul proprio modo di vivere, di guardare se stessi con implacabile onestà e ammettere: “sì, mi comporto così”, oppure: “questo è il mio punto debole”. Non è una forma di autocritica, ma una osservazione oggettiva. Eppure, da quello sguardo più profondo, si sviluppa gradualmente la motivazione per cui la pratica diventa il riferimento centrale dell’esistenza. L’aspirazione a sapere cos’è la vita, e a viverla con l’apertura di cuore, diventa una priorità, nonché il contesto che dà senso a tutto il resto; allora è possibile accogliere la vita malgrado le circostanze.
Da Ezra Bayda, Cuore zen. Consigli semplici per una vita di consapevolezza e compassione, Astrolabio Ubaldini, 2009.
Per approfondire:
Ezra Bayda – Libri e testi scelti in italiano
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Si ringrazia per il testo il Centro Studi Mindfulness
[La foto è di Zach Dischner, Usa]You need to login or register to bookmark/favorite this content.