Alan Watts – Come accettare la morte

accettare la morte

Accettare la morte è possibile, secondo Alan Watts. Anzi, è la conseguenza naturale che deriva da un atteggiamento privo di pregiudizi, che ci permette di vedere la morte addirittura come un’esperienza di risveglio.

Non è naturale voler prolungare la nostra vita all’infinito. Tuttavia, viviamo in una cultura che cerca instancabilmente di convincerci che la morte sia qualcosa di terribile, qualcosa da nascondere sotto il tappeto. Per esempio, guardate come trattiamo gli anziani negli ospedali. La nonna sta morendo, e sospetta che sia così, ma la famiglia e i dottori cospirano per nasconderle l’evento molto ovvio della morte imminente. Per qualche motivo, i suoi familiari hanno la curiosa convinzione che sia importante alimentare il coraggio e la speranza, perciò le mentono: «Oh, stai migliorando, vedrai che tra un paio di settimane ti sarai ristabilita». Si ingenera così una diffidenza reciproca, perché una volta iniziato quel gioco si tende ad estenderla anche su altri livelli. E si lascia morire la nonna da sola: a sorpresa, impreparata, e talmente imbottita di farmaci dopanti che la sua morte avviene senza l’ombra di una esperienza spirituale.

Nel 1958 mi trovavo a Zurigo, e lì ho conosciuto un uomo veramente straordinario di nome Karlfried von Dürckheim. Era un ex agente nazista che era stato mandato in Giappone per fare propaganda. Finì per studiare lo zen e per vivere una rinascita spirituale durante la sua prigionia, avvenuta nel dopoguerra; alla fine ritornò in Germania, dove aprì un centro di meditazione nella Foresta Nera. Dedicò la sua opera a persone che avevano subito una crisi spirituale durante la guerra, e constatò ripetutamente che, sotto la minaccia di morte, taluni sperimentavano ciò che egli chiamava un satori spontaneo. Quelle persone avevano sentito arrivare le bombe, udendone il caratteristico sibilo, e sapevano che si stavano dirigendo proprio sulle loro teste. Ebbene, era successo che quelle persone, che sapevano di essere spacciate, l’avevano accettato. E dopo averlo accettato, avevano percepito la strana sensazione che tutto fosse completamente chiaro, che tutto, nell’intero universo, fosse proprio come doveva essere: ogni granello di polvere era esattamente al suo posto. E in quell’attimo avevano raggiunto la comprensione piena di tutto, solo che non erano in grado di descriverla. Perciò quelle persone, che avevano vissuto esperienze così profonde, cercavano di parlare con le loro famiglie di ciò che avevano visto e sentito, ma nessuno le ascoltava: «Oh, eri molto stressato, probabilmente avevi delle allucinazioni». Frasi del genere. Ma Dürckheim ascoltò cosa avevano da dire e pensò che non fossero allucinazioni, bensì rari esempi di persone che in realtà stavano vivendo un risveglio.

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Questa è l’opportunità offertaci dalla morte. Se riusciste ad accedere alla morte a occhi aperti e col sostegno degli altri, vi potrà accadere questa cosa straordinaria. E da quella prospettiva privilegiata, direste: «Non mi sarei voluto perdere quell’opportunità per nessuna ragione al mondo! Ora capisco perché moriamo!». Si muore per darci l’opportunità di capire il senso della vita, e possiamo farne esperienza solo quando lasciamo andare, perché è solo allora che si arriva a una situazione che l’ego non è in grado di affrontare. Quando non siamo più ipnotizzati, la nostra coscienza naturale riesce a percepire chiaramente lo scopo di tutto il nostro universo. Ma noi ci lasciamo sfuggire questa opportunità. Togliamo di mezzo la morte relegandola negli istituti di cura, anziché incoraggiarne l’accettazione sociale, anziché celebrarla. Non sto dicendo che il nostro letto di morte dovrebbe essere circondato da risate, palloncini e cotillon; sto solo dicendo che ci serve un nuovo approccio. Anziché fare le facce tristi e affrante (questo vale in particolar modo per i cristiani, che presumibilmente credono di andare in paradiso), è un dovere verso noi stessi elaborare un approccio alla morte del tutto nuovo.

È comprensibile che alcune persone muoiano preoccupandosi del coniuge e dei propri figli. Tuttavia, nessuno è indispensabile e arriva il momento in cui si deve dire: «Mi dispiace, ma sto per abbandonare tutte le mie responsabilità, perché non c’è nient’altro che io possa fare». È un’altra forma di resa. Quando si lascia la presa su tutto in questo modo, accade qualcosa di strano: si capisce tutto a un tratto che, per essere importante, l’esistenza non deve necessariamente prolungarsi. Non ha bisogno di durare più di un attimo. La continuità quantitativa ha poco valore. Per quanto tempo si riesce a trattenere il respiro? Chi se ne frega!

Non è necessario provare la sofferenza di trovarsi sotto ai bombardamenti o di essere rinchiusi nei campi di concentramento: in questo stesso attimo, possiamo essere anche noi come quelli che stanno per morire. Possiamo comprendere in modo autentico e sincero il mistero della vita, perché la morte è, in un certo senso, la fonte della vita. Nella foresta le foglie muoiono e si staccano dagli alberi cadendo al suolo. Ammuffiscono, marciscono e producono humus che nutre la crescita di altre piante. Il ciclo funziona così.

Ma noi cerchiamo di impedire a quel ciclo di compiersi. Guardate cosa fanno le pompe funebri: rendono le salme sgradite ai vermi, come se essere mangiati rappresentasse un oltraggio. Perché? Noi mangiamo qualunque cosa, senza restituire niente. Quello è un segno del nostro profondo disorientamento nei riguardi della morte. Non solo consideriamo la morte un’indegnità, ma mandiamo anche le partorienti in ospedale perché si sottopongano al tipo di parto più contro natura e anormale che ci sia. Si va diffondendo sempre più l’abitudine di considerare patologiche le sane e inevitabili trasformazioni del corpo umano.

Da: Alan Watts, “Lo zen e l’arte di imbrogliare la mente“, Macro Edizioni, 2019.

Lo zen e l’arte di imbrogliare la mente

Alan Watts, Lo zen e l'arte di imbrogliare la mente
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N. pagine: 224
Alan Watts ci invita a sottrarci alla trappola della consapevolezza ordinaria, smettendo di prendere la vita così seriamente per cominciare a godercela in completa sincerità, rinunciando al "mito di noi stessi", che ci illude di essere degli ego racchiusi in un involucro di pelle e separati dalla realtà circostante. Questo concentrato degli interventi più interessanti di Watts spiega in modo affascinante e ironico i principi della filosofia buddhista e la sua applicazione nella vita quotidiana.
Paolo Subioli

Pur essendo un volume postumo, basato sulla rielaborazione di trascrizioni di discorsi di Alan Watts, questo libro è bellissimo. C’è tutta l’erudizione, l’acume e l’ironia del filosofo inglese.

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[La foto è di Leah Kelley, Stati Uniti]

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