L’impermanenza – ovvero la constatazione del fatto che tutto cambia di continuo – è l’insegnamento fondamentale del Buddhismo, forse quello più carico di conseguenze. Intuitivamente lo capiamo da soli. Qualsiasi cosa osserviamo, ci rendiamo conto che la sua caratteristica fondamentale è quella di cambiare. Al mattino ci svegliamo e presto dobbiamo constatare che la luce e la temperatura cambiano costantemente, nel corso della giornata. Nelle zone geografiche temperate, come la nostra, il susseguirsi delle stagioni delinea uno scenario molto mutevole, nel corso dell’anno, che corrisponde anche a una varietà dei cibi disponibili e del nostro stato d’animo. La nostra stessa esistenza è all’insegna del cambiamento, col passaggio dall’infanzia alla giovinezza, poi all’età adulta, alla vecchiaia e alla morte. Per quanto ci proviamo, non possiamo in alcun modo contrastare il continuo invecchiamento del corpo.
L’impermanenza è ovunque e a tutti i livelli, dal microscopico al cosmico. Non c’è nulla che rimanga immobile nel tempo. Osservando la realtà con un microscopio, possiamo verificare come tutto ciò che ci circonda, noi compresi, sia costituita da atomi e particelle subatomiche in continuo movimento. Anche gli oggetti di metallo, che ci sembrano così solidi! Inoltre, è stato calcolato che nel corpo umano ci sono mediamente quasi 40mila miliardi di cellule, che si rinnovano di continuo. Si stima che nel nostro corpo ogni minuto muoiano e rinascano 300 milioni di cellule. Va a finire che, nel giro di pochi anni, di noi non rimane quasi niente, nonostante continuiamo a credere di essere sempre la stessa persona! E pure l’immenso universo, lo sappiamo, è in continua espansione e dei suoi infiniti elementi non ce n’è uno che rimanga fermo.
Il problema dell’impermanenza
L’impermanenza, nonostante ci accompagni dal primo istante di vita e sia a fondamento della nostra stessa esistenza, è uno di nostri più grandi problemi. Perché non la accettiamo. Quando abbiamo a che fare con qualcosa che ci piace, ci attacchiamo tenacemente ad essa e non vorremmo perderla, ma poi è sempre così che va a finire. Quando ci troviamo in una situazione sgradevole, invece, ci dimentichiamo dell’impermanenza e ci sembra che non debba finire mai. Il continuo cambiamento di tutto rende la realtà inaffidabile, proprio il contrario di quello che tutti desideriamo. Ciascuno di noi vorrebbe dimorare stabilmente nella propria “comfort zone”, lo stato psicologico nel quale le cose che ci circondano ci sembrano familiari ed è tutto sotto controllo. Ma a causa dell’impermanenza, non c’è mai niente che sia sotto controllo. Nemmeno noi stessi lo siamo, perché il corpo invecchia e si ammala contro la nostra volontà, e persino i pensieri arrivano da soli, senza che noi possiamo deciderlo a priori.
Se ci sdraiamo su un prato e osserviamo il cielo, vediamo che le nuvole arrivano, si trasformano e poi si dissolvono. Così è per tutto. Il cielo con le sue nuvole passeggere è la rappresentazione perfetta della nostra mente, ma anche della nostra stessa vita. Crediamo di essere sempre le stesse persone, ma la nostra stessa personalità cambia incessantemente, giorno dopo giorno.
La bellezza dell’impermanenza
L’impermanenza ci destabilizza, ma ha anche una sua bellezza straordinaria. Se passeggiamo nel bosco, ci muoviamo su un morbido letto di foglie in putrefazione, che fino a poco prima erano parte degli alberi sopra le nostre teste, e che si apprestano a diventare il nutrimento di quegli stessi alberi. Il poeta e maestro zen Thich Nhat Hanh ci invita a vedere la spazzatura nel fiore: senza la spazzatura che crea il compost, il fiore non potrebbe crescere, dunque il fiore e la spazzatura sono due facce della stessa realtà. Senza il fango il loto non potrebbe crescere. Dunque l’impermanenza ci insegna anche a non discriminare più di tanto tra bene e male, bello e brutto, buono e cattivo, perché tutta la realtà è materia ed energia in continua trasformazione.
L’impermanenza è vita. “Senza l’impermanenza, tua figlia non potrebbe crescere e trasformarsi in una bellissima ragazza” dice il maestro zen. “Senza l’impermanenza, i regimi politici oppressivi non cambierebbero mai”. Sappiamo che a causa dell’impermanenza prima o poi perderemo le cose e le persone a noi più care, ma proprio per questo possiamo amarle ancora di più, se sappiamo farne tesoro finché sono ancora in vita. La consapevolezza dell’impermanenza ci dà un senso d’urgenza che ci aiuta a considerare prezioso ogni momento, ha detto il Dalai Lama.
Accettare l’impermanenza
L’impermanenza è anche legata alla dimensione dell’accettazione. Un altro grande maestro zen, Shunryu Suzuki-roshi, essendo stato tra i primi maestri spirituali orientali a stabilirsi in Occidente, si è scontrato subito con la nostra difficoltà ad accettare l’idea della rinuncia. “La rinuncia non consiste nel lasciare le cose di questo mondo”, ha detto, “ma nell’accettare che se ne vadano”. Ecco dunque un’altra grande lezione che ci viene dall’impermanenza.
Se entriamo ancora più nello specifico della filosofia buddhista, apprendiamo che ogni fenomeno – fisico o mentale – è condizionato da altri fenomeni. Si tratta cioè di una “formazione” che si crea quando ci sono tutte le cause e le condizioni adeguate. Il fenomeno sorge, si trasforma e poi scompare. Possiamo perciò parlare di “impermanenza” per descrivere i fenomeni dal punto di vista del tempo e di “non sé” dal punto di vista dello spazio. Infatti, se ogni cosa dipende da altre cose, non solo è continuamente cangiante, ma è priva di un sé separato, perché può esistere solo se esistono tutti i fenomeni da cui dipende. Anche il concetto di non sé potrebbe sembrare destabilizzante, ma se lo consideriamo sotto la luce dell’impermanenza, vediamo che esso non è altro che una delle manifestazioni più autentiche della vita, che per sua natura si basa sulla trasformazione, come il bocciolo che contiene in sé il fiore che presto diventerà, per trasformarsi un giorno in un frutto maturo.
Guardare il mondo con occhi nuovi
Il nostro mondo contemporaneo dominato dalle tecnologie è più che mai guidato dall’impermanenza. I dispositivi digitali si trasformano e si rimpiccioliscono sempre di più. Imparare a usarli è una sfida continua, perché le novità si susseguono ad un ritmo insostenibile per chi non è più un ragazzo. Né sappiamo cosa rimarrà della conoscenza che stiamo generando oggi, perché i formati, i supporti e i gli standard tecnologici non resistono al passare del tempo. Così ci è ignoto se in futuro potremo ancora accedere alle foto che scattiamo oggi, agli articoli che vengono pubblicati, alle tante parole e immagini che affidiamo alla rete.
In questo scenario, possiamo muoverci tra due alternative. Attaccarci strenuamente alle nostre sicurezze, nel vano tentativo di contrastare l’impermanenza, oppure imparare a guardare il mondo con gli occhi privi di ogni pregiudizio che sono tipici di un bambino, come ci ha tramandato un altro grande poeta, Fernando Pessoa:
Il mio sguardo è nitido come un girasole.
Ho l’abitudine di camminare per le strade
guardando a destra e a sinistra
e talvolta guardando dietro di me…
E ciò che vedo a ogni momento
è ciò che non avevo mai visto prima,
e so accorgermene molto bene.
So avere lo stupore essenziale
che avrebbe un bambino se, nel nascere,
si accorgesse che è nato davvero…
Mi sento nascere a ogni momento
per l’eterna novità del Mondo…
Articolo pubblicato su Yoga Journal – Laboratorio di MIndfulness. Speciale Meditazione, 2019.
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Per approfondire:
Zen in the city. L’arte di fermarsi in un mondo che corre
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