
Una mattina, uscendo dalla mia stanza notai che al filo dove io stendevo i miei panni ad asciugare qualcun altro aveva appeso la sua biancheria. Erano cose da donna e distrattamente pensai che fossero della bella maestra di danza venuta per qualche giorno in visita all’ashram e che sapevo alloggiata poco lontano da me.
Andai alla puja, alla meditazione, a lezione, ma senza che io lo volessi, quasi senza che me ne accorgessi, quell’affascinante e incontrollabile parte di noi che è la mente si era scatenata. Sfuggendo completamente al mio controllo, la mente di me che volevo essere dov’ero tornava invece al filo della biancheria e alla maestra di danza; la mente di me che non volevo parlare con nessuno si immaginava invece tutta una conversazione, faceva domande, dava risposte, formulava desideri.
Certo – come diceva il Swami – avevo da scegliere: potevo essere il me che desiderava, o il me che rideva del me che desiderava. Ma era più facile dirlo che farlo. Avessi potuto andare da lui con questo dilemma, l’avrei fatto… anche senza tagliarmi un braccio, come fece secondo la leggenda l’allievo del fondatore del buddhismo zen nel tempio di Shaolin in Cina secoli fa.
Il suo Maestro, un indiano di nome Bodhidarma, conosciuto in Cina come Da Muò e in Giappone poi come Daruma, era sempre in meditazione e nessuno riusciva mai a parlargli. Una volta l’allievo, esasperato, per attrarne l’attenzione, si mozzò netto il braccio sinistro, lasciando che il sangue facesse una grande chiazza rossa nella neve.
« Ma che vuoi? » chiede finalmente il Maestro.
« Calmare la mia mente. »
« Bene, portami la mente e te la calmerò. »
L’allievo parte. « Non l’ho trovata », dice tornando.
« Vedi? » gli fa il Maestro. « Te l’ho calmata. » E torna a meditare.
Ciò da cui l’allievo vuole fuggire è la rete dei suoi pensieri e il Maestro con la sua trovata gli fa capire che il pensiero stesso è il problema.
Ma potevo io andare dal Swami a dirgli quel mio pensiero? Sapevo bene qual era. Esattamente quello del monaco moralista di un’altra famosa storia zen.
Due monaci camminano per una strada allagata da un acquazzone. A un certo punto si trovano davanti una bella ragazza che, ben vestita com’è, non riesce ad attraversare una pozzanghera. Uno dei due la prende in braccio e la deposita all’asciutto. Lì per lì l’altro monaco non dice nulla, ma la sera, quando sono nel tempio dove passano la notte, non resiste:
« Noi monaci dobbiamo stare lontani dalle donne, specie se giovani e belle », dice con aria di rimprovero. «Toccarle poi è estremamente pericoloso. Perché l’hai fatto? »
«Io quella ragazza l’ho lasciata là dall’altra parte della pozzanghera », risponde l’accusato. «Tu invece mi sembra che te la sei portata dietro fino qui. »
Così ero io. Due cenci appesi a un filo avevano rimesso in moto un meccanismo dal quale pensavo di essermi definitivamente liberato. Più che il pensiero in sé, mi umiliava il non poter controllare la mia mente: e più cercavo di controllarla, più quella mi faceva nuovi scherzi… finché non mi ricordai di Sundarajan.
Una volta, sul poggio, parlandomi del suo amore per la statua, mi aveva detto di « non aver conosciuto donna » e aveva alluso a un certo « potere » con cui in tutta la sua vita aveva tenuto a bada i propri istinti. Lo andai a trovare e con grande franchezza gli posi il problema.
« Non conosci gli esercizi? »
No. Quelli davvero non li conoscevo. Lui li faceva ogni mattina appena alzato, assieme allo yoga. Erano efficacissimi, disse, a far risalire il seme, trasformarlo in energia spirituale, e con ciò a togliere alla mente quello stimolo che la sguinzaglia.
« Mettiti per terra, ti insegno », mi disse.
Mi fece inginocchiare, poi piegare in avanti, con la testa e le mani ferme sul pavimento. Mi spiegò come piegare la lingua il più possibile indietro, verso la gola, come respirare, cosa fare coi muscoli del basso addome e con lo sfintere. Mi confidò ancora un paio di cose, poi, perché non facessi errori, mi fece vedere come lui eseguiva ognuna di quelle mosse. Dovevo cominciare con pochi minuti al giorno e poi lentamente aumentarli.
La sola idea di quel « potere » mi affascinava. E il mondo non è bello? Da qualche parte c’è chi inventa il Viagra e da un’altra ci son quelli che studiano come mettere una museruola a quell’impertinente pezzo di sé che uno si porta dietro. L’uomo è davvero stupefacente!
Non so se gli esercizi di Sundarajan facessero davvero risalire il seme, come lui diceva; ma io, dopo averli inseriti nel pot-pourri della mia routine del mattino – un po’ di yoga, un po’ di qi gong, un po’ di ginnastica per gli occhi, la prostata, la spina dorsale, i sorrisi allo stomaco e infine « la palla» di Master Hu – potei riferirgli senza mentire, che il sistema funzionava.
Da: Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo, Longanesi, 2004.
Per approfondire:
Libri di Tiziano Terzani:
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