
Nel libro Stories of the Spirit, Jack Kornfield e Christina Feldman raccontano questa storia: una famiglia si era recata a cena in un ristorante. Quando è arrivata la cameriera, i genitori hanno ordinato. Immediatamente la loro figlia di 5 anni ha aggiunto il suo: «Prendo un hot dog, patatine fritte e Coca Cola». «Oh, no» si è intromesso il padre e, girandosi verso la cameriera, ha detto: «Prenderà polpettone, purè di patate e latte». Guardando la bambina con un sorriso, la cameriera ha detto: «Allora tesoro, cosa ci vuoi sull’hot dog?». Quando si è allontanata, la famiglia restò in silenzio, sorpresa. Qualche momento dopo la ragazzina, con gli occhi che brillavano, ha esclamato: «Lei pensa che io sia reale».
Mia madre era venuta a trovarmi quando raccontai questa storia al mio gruppo settimanale di meditazione a Washington DC. Mentre tornavano a casa insieme dopo la lezione, si girò verso di me e con voce rotta mi disse: «Quella bambina al ristorante ero io». Non si era mai sentita reale agli occhi dei genitori, continuò. Essendo figlia unica, sentiva di essere al mondo per essere la persona che i suoi genitori volevano che fosse. Il suo valore si misurava solo in quanto bene li rispecchiava e in quanto li rendeva orgogliosi. Era un oggetto che loro controllavano e gestivano, mostravano o sgridavano. Le sue opinioni o i suoi sentimenti non contavano perché, come lei sosteneva, non la vedevano come “persona a sé stante”. La sua identità era basata nel compiacere gli altri e nella paura di non piacere se non lo faceva. Nella sua esperienza, non era una persona reale che si meritava rispetto e che, senza menzogne o sforzi, era amabile.
La maggior parte dei miei clienti è molto consapevole delle qualità di un genitore ideale. Sanno che quando i genitori sono realmente presenti e amorevoli, offrono al bambino uno specchio della sua stessa bontà. Attraverso questo riflesso, il bambino sviluppa un senso di sicurezza e fiducia nei primi stadi della vita, così come la capacità per la spontaneità e l’intimità con gli altri. Quando i miei clienti esaminano le loro ferite, riconoscono che, da bambini, non hanno ricevuto l’amore e la comprensione che desideravano. Inoltre, sono in grado di vedere che nemmeno loro raggiungono la perfezione nelle relazioni con i loro bambini: possono essere poco attenti, critici, arrabbiati e concentrati su se stessi.
I nostri genitori imperfetti hanno a loro volta avuto dei genitori imperfetti. Le paure, le insicurezze e i desideri si trasmettono per generazioni. I genitori vogliono vedere la loro prole riuscire nei modi che loro ritengono importanti, oppure vogliono che i loro bambini siano speciali, che nella nostra cultura competitiva vuol dire più intelligenti, più realizzati e belli delle altre persone. Vedono i loro bambini attraverso il filtro della paura (potrebbero non entrare in una buona università e avere successo) e quello del desiderio (ci assomiglieranno?).
Strategie per gestire il dolore dell’inadeguatezza
Facciamo quello che possiamo per evitare il dolore di non sentirci all’altezza. Ogni volta che le nostre mancanze vengono esposte, a noi stessi o agli altri, reagiamo, cercando ansiosamente di coprire la nostra nudità, come Adamo ed Eva dopo la caduta. Durante gli anni, ognuno di noi sviluppa un particolare mix di strategie volte a nascondere i nostri difetti e a compensare quello che crediamo essere sbagliato in noi.
Intraprendiamo un progetto di miglioramento personale dopo l’altro. Lottiamo per raggiungere gli standard dei media per un corpo e un aspetto perfetto tingendo i capelli grigi, facendo lifting facciali, mettendoci perennemente a dieta. Ci impegniamo per avere una migliore posizione lavorativa, ci teniamo in forma, seguiamo corsi di studio per arricchirci, meditiamo, facciamo liste, volontariato, partecipiamo a laboratori. Di certo tutte queste attività possono essere affrontate in maniera sana, ma spesso siamo guidati dalla sensazione di non essere “abbastanza bravi”. Invece che rilassarci e goderci chi siamo e quello che stiamo facendo, ci compariamo a un ideale e cerchiamo di compensare la differenza.
Ci tratteniamo e rimaniamo sul sicuro piuttosto che rischiare il fallimento. Quando mio figlio, Narayan, aveva 10 anni, passò una fase in cui era molto riluttante a provare nuove cose. Voleva essere subito bravo in tutto e, se gli pareva che quell’attività richiedesse impegno, si sentiva intimorito. Provavo a parlargli di come le parti più belle della vita comportavano alcuni rischi e del fatto che gli errori erano inevitabili. I miei suggerimenti per fargli espandere i suoi orizzonti con delle lezioni di tennis o partecipando a un saggio musicale incontravano sempre una certa resistenza. Dopo uno dei miei inutili tentativi di coinvolgerlo in qualcosa di nuovo, la risposta di Narayan è stata citare Homer Simpson: «Provare è il primo passo per il fallimento».
Rimanere sul sicuro implica evitare situazioni di rischio, che comprendono più o meno tutta la vita. Potremmo evitare di assumere un ruolo di leadership o responsabilità al lavoro, potremmo evitare di entrare in intimità con gli altri, potremmo trattenerci dall’esprimere la nostra creatività, dal dire quello che vorremmo, dall’essere scherzosi o affettuosi.
Ci tiriamo indietro dalla nostra esperienza del momento attuale. Evitiamo la nostra felicità e la passione, la nostra paura e la vergogna, perché ci sentiamo impotenti davanti alla loro forza. Mettiamo un freno alla nostra esperienza effettiva giudicandola continuamente o interpretandola attraverso le storie che raccontiamo a noi stessi riguardo quello che sta succedendo. Mentre ci sono infinite variazioni sul materiale, manteniamo alcuni temi ricorrenti: quello che dobbiamo fare, quello che non ha funzionato, che problemi potremmo incontrare, come ci vedono gli altri, come gli altri soddisfano (o no) i nostri bisogni, come gli altri interferiscono o ci deludono. C’è una vecchia storiella di una madre ebrea che manda un telegramma al figlio: «Comincia a preoccuparti, in seguito i dettagli». Visto che viviamo in un fluttuante stato di ansia, non abbiamo neanche bisogno di un problema per dare il via a un fiume di scenari disastrosi. Vivere nel futuro crea l’illusione che stiamo gestendo la nostra vita e ci protegge dal fallimento personale.
Da: Tara Brach, “Il Potere straordinario dell’Accettazione Totale“, Bis Edizioni, 2014.
Per approfondire:
Jeff Foster – Accettazione non significa rassegnazione
[La foto è di Virin (United States Air Force)]You need to login or register to bookmark/favorite this content.