Riconoscere la mancanza di fondamento che ci accomuna agli altri esseri umani è la strada per liberarci dall’attaccamento e convivere in modo sano in un mondo che cambia, sia a livello individuale che collettivo.
La “mancanza di fondamento” come sfondo per l’umano
La meditazione di mindfulness, se praticata correttamente (senza sforzo e con attitudine compassionevole) spinge a una accettazione dell’impermanenza e del non-sé come dati esistenziali con i quali non si può non fare i conti. Nella pratica continua a persistere incessantemente la ricerca della soddisfazione dell’ego e si manifestano anche i segni delle più diverse difficoltà. Il meditante è continuamente esposto alla scoperta della forza dei suoi impulsi, delle sue speranze e delle sue ossessioni. Nella visione del maestro tibetano T. Gyatso – citata da Varela e colleghi in “The Embodied Mind” – la meditazione è un incerto andirivieni tra ricerca del sé e delusione di questa ricerca:
Il meditante non specula intorno al “sé”. Non ha teorie riguardo alla sua esistenza o non-esistenza. Si allena solo a guardare. in che modo la sua mente si attacca all’idea di sé o “mio” e in che modo la sua sofferenza sorge da questo attaccamento. Allo stesso tempo il meditante va attentamente alla ricerca di questo sé. Tenta di isolarlo da tutte le altre sue esperienze. E siccome è la causa di tutte le sue sofferenze, lo vuole cercare e identificare. Ma per ironia della sorte, per quanto lo cerchi, non trova nulla che corrisponda al sé.
A fronte di questa ricerca “impossibile” i costrutti dell’anatta rappresentano un utile supporto per lo sforzo meditativo. La teoria offre alla mente l’opportunità di dedicarsi alla meditazione avendo risolto e, in un certo modo, accantonato — le questioni scientifiche e filosofiche.
Queste ultime non vanno comunque ignorate, dato che forniscono una serie di stimoli importanti sulla natura della mente, della coscienza e della soggettività e alimentano la meditazione pur restando sullo sfondo. Nella prospettiva di Varela e colleghi la questione scientifico-filosofica cruciale è quella del superamento della visione, ancora prevalente, del mondo come dotato di specifici fondamenti. Gli autori affermano infatti che «la nostra situazione storica richiede non solo che si lasci perdere il fondazionalismo filosofico ma anche che si impari a vivere in un mondo senza fondamenti». Il loro modo di intendere la “mancanza di fondamenti” (groundlessness) non è un’invenzione filosofica ma è lo sfondo di un’elaborazione riguardo a un possibile percorso che «si stabilisce camminando» in una direzione essenzialmente etica. Dal punto di vista dello scienziato cognitivo in questo cammino si intrecciano l’approccio scientifico e l’esperienza personale che, attraverso la pratica della mindfulness, diventa esperienza dei modi in cui la mente funziona in assenza del sé.
Valorizzando la dimensione dell’embodiement questo duplice livello di esperienza tende — come già sottolineato — a evitare gli estremi dell’assolutismo e del nichilismo, Il primo estremo è tipico degli approcci cognitivisti tuttora prevalenti che intendono la cognizione come rappresentazione di un mondo precostituito da parte di un soggetto anch’esso precostituito, Il secondo estremo è quello degli approcci che scoprono la non-unità del soggetto e ne fanno nichilisticamente discendere l’impossibilità di una prospettiva trasformativa dell’esperienza umana.
La teoria dell’embodiement, in quanto comprende il corpo sia come struttura viva orientata dall’esperienza sia come contesto di meccanismi cognitivi, fornisce una via di mezzo rispetto a questi due estremi, il più insidioso dei quali è comunque il secondo, il nichilismo. Contro ogni interpretazione nichilista dell’anatta, bisogna sostenere il fatto che la mancanza di un sé ontologicamente definito non elide ma anzi rafforza l’esigenza di riconoscere le esigenze del sé empirico-pratico e di formulare proposte etiche originali, all’altezza della attuale complessità della condizione umana.
Un contributo importante da questo punto di vista è rintracciato nell’opera del filosofo giapponese K. Nishitani il quale nell’affrontare la questione del nichilismo si richiama a Nietzsche e alla sua teoria della “mancanza di fondamenti” ma la integra con la sua concezione del vuoto/sunyata. Quest’ultima non ha solo una valenza filosofica ma ha risvolti pratici, coerenti con la pratica meditativa, in quanto tende ad arricchire l’esperienza umana in una direzione etica che sfida il discorso sociale prevalente nel nostro tempo.
La necessità di un pensiero planetario richiede di considerare la mancanza di fondamenti, evocata dalla scienza cognitiva e dall’esperienza, nella sua piena luce nel contesto umano. Non è forse il sé a essere stato considerato il detentore di un potere etico e morale? Se sfidiamo questa idea del sé, cosa riusciamo a liberare nel mondo? Ci rendiamo conto che questo tipo di interesse è il risultato del fallimento del discorso occidentale nell’analizzare con acume esperienziale il sé e il suo prodotto: l’individualismo e il self-interest. D’altro canto, invece, la dimensione etica dell’io e della mancanza di io sono al cuore della tradizione buddhista.
(da “The Embodied Mind“)
È necessario quindi impegnarsi per lo sviluppo di un mondo che sia allo stesso tempo groundless ed eticamente orientato. Un mondo capace di evitare i disastri evocati dalla parabola nota come “la tragedia dei beni comuni” (The Tragedy of Commons), Di essa sono protagonisti alcuni pastori interessati esclusivamente allo sviluppo e allo sfruttamento della propria mandria e che per questo giungono a causare l’esaurimento del pascolo comune, La razionalità individuale — insegna questa parabola — confligge con quella comune: una situazione che si crea inevitabilmente laddove l’interesse di un singolo io non si sintonizza con quello degli altri. La pratica della consapevolezza è importante rispetto a questo tipo di effetti in quanto consente di guardare al sé come qualcosa che emerge solo in relazione all’altro. L’approccio consapevole all’esperienza è fattore di trasformazione dell’egoismo e viene incontro a un’esigenza sentita ma poco sviluppata in un mondo nel quale sembrano dominare le varianti più estreme delle teorie dello scambio sociale, in cui si massimizza l’utile individuale e si sospende la comunicazione laddove non vi sia convenienza nello scambio.
A livello planetario — secondo gli autori che scendono in questo modo sul terreno della teoria sociale e di un’etica che è implicitamente anche politica — c’è bisogno di forme di consapevolezza della mancanza di fondamenti basate sull’incorporazione dell’interesse per l’altro con il quale si attiva (enact) il mondo. La mancanza di fondamento in questo senso è esattamente il contrario di un abisso; è invece l’ambiente della “compassione”, fondamentale qualità dell’agire umano. Insieme alla compassione (karuna) come effetto del “vuoto” (sunyata) gli autori evocano altri fondamentali topoi del buddhismo Mahayana, come lo “stato naturale”, non offuscato dai condizionamenti dell’io, che spinge ad agire sempre con generosità. O come la “mente-cuore illuminata” (bodhicitta), capace sia di aprire la strada alle realizzazioni più elevate sia di sostenere l’apertura a tutti gli esseri viventi. O come i “mezzi abili” (upaya), che contribuiscono a rimuovere le abitudini egocentriche e di attivare la saggezza a partire dalle condizioni date.
L’esito di tutte queste capacità e virtù è quello del superamento positivo dell’attaccamento a tutti i livelli.
L’attaccamento può essere espresso non solo sul piano individuale come fissazione su un ego/sé ma anche sul piano collettivo come fissazione su una auto-identificazione razziale o tribale, ovvero, ancora, come attaccamento a un terreno o territorio che separa un gruppo di persone da un altro e del quale uno dei due gruppi vuole appropriarsi. L’idolatria di supporre che esista un solo terreno e che qualcuno lo voglia far proprio spinge a identificare l’altro in un modo puramente negativo ed escludente. La realizzazione della groundlessness come capacità di risposta non egocentrica si collega al fatto che noi riconosciamo l’altro con cui siamo legati da una co-originazione che ci rende co-dipendenti. Se il nostro compito negli anni che ci sono davanti è, come noi crediamo, costruire e dimorare in un mondo planetario, allora dobbiamo imparare a sradicare e rilasciare la tendenza all’attaccamento, soprattutto nelle sue manifestazioni collettive.
Da: Massimo Tomassini, “La vita consapevole. La mindfulness dopo la mindfulness“, Castelvecchi editore, 2023.
Abbiamo parlato di Massimo Tomassini in questo articolo.
Per approfondire termini e temi citati nell’articolo – come anatta, bodhicitta, karuna, sunyata, upaya – si veda il nostro Indice tematico.
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