Chandra Livia Candiani – Il sollievo dell’impersonalità

impersonalità

L’impersonalità è una dimensione chiave nella pratica di meditazione, perché ci aiuta a vedere le cose come sono realmente e non come ce le raccontiamo. Il mondo non umano ha molto da insegnarci a riguardo.

Avere amici animali e vegetali, praticare la vista meravigliata e meravigliosa introduce al sollievo dell’impersonalità. Perché andare in profondità meditando non è solo l’archeologia della storia personale, ma anche sentire che non c’è persona, assaporare la sofferenza senza cadere nella rete del raccontarsela, ma lasciando che sia lei a raccontare, se ha qualcosa da rivelarci, e sentire che i suoi racconti servono solo a renderci più precisi nella compassione verso noi stessi, più acuti nel riconoscere il c’è della sofferenza in noi e attorno a noi. Impersonalità non è diventare invisibili e innocui, ma innocenti, consapevoli della propria fragilità e della propria capacità di nuocere, consapevoli del c’è. Consapevoli anche di splendere. E splendere. Perché c’è, e perché i bambini guariscono in fretta se sono compresi e curati: non gli piace essere malati e lo stesso fa il cuore, anche un vecchio cuore.

Accorgersi che anche la gioia, come la sofferenza, è un c’è, e che è diversa dall’allegria; non vuole essere dimostrata: se a un animale viene da sorridere, sorride anche se è nel deserto, non vuole essere visto, non vuole essere non visto. Dunque, la gioia c’è ed è una gioia che tiene conto del nostro dolore, non un’allegria che lo cancella. E una gioia su misura, che ci conosce bene.

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Gli animali e gli alberi insegnano a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire. La loro assenza di controllo mi pare renda il loro mondo non più minuscolo, ma anzi vastissimo, misterioso.

Sanno abbandonarsi, conoscono e insegnano una fiducia primaria e radicale.

Da: Chandra Livia Candiani, “Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano“, Einaudi, 2021.

Che cos’è l’impersonalità

Chandra Livia Candiani in questo brano parla di impersonalità, e lo fa come sempre in maniera chiara, lieve e profonda al tempo stesso. Ma se parla di qualcosa di così contro-intuitivo come “sentire che non c’è persona”, può farlo perché ha alle spalle una lunga esperienza di meditazione basata sugli insegnamenti buddhisti.

L’impersonalità è qualcosa che si può capire solo fino a un certo punto, a livello razionale. Richiede di essere sperimentata direttamente e a lungo, con l’esercizio. Ma richiede anche di conoscere l’insegnamento.

Quando si parla di impersonalità, ci si riferisce al fatto che, secondo questa dottrina, tutti i fenomeni sono impersonali, compreso quello che noi percepiamo come “sé”. Il Buddha aveva detto che la nostra percezione che ci sia un sé, un io, un anima, è una specie di allucinazione. In realtà, non siamo altro che l’insieme di cinque aggregati:

  1. Forma o corpo fisico (rupa)
  2. Sensazione (vedana)
  3. Percezione (sañña)
  4. Formazioni mentali (sankhara – ovvero pensiero discorsivo, volizione, immaginazione, emozione, ecc.)
  5. Coscienza (viññana)

L’insieme dei cinque aggregati dà l’impressione che ci sa qualcosa di unito, che risponde a un’unica “regia”. Ma in realtà non c’è altro. Se a ciascuno di noi togliessimo i cinque aggregati, uno per uno, non rimarrebbe niente. Ovvero, dietro non c’è alcun “sé”. E ognuno degli aggregati è “condizionato”, cioè si manifesta solo e unicamente quando sorgono determinate condizioni. La stessa coscienza non sfugge a questa regola.

Dunque si parla in generale di impersonalità o fenomeni impersonali e, nello specifico, di anatta, o non sé. Non sé significa che non c’è niente che possa dirsi dotato di una sostanza indipendente e separata. Ogni cosa dipende da qualcos’altro. Anche ciascuno dei cinque aggregati di cui siamo composti dipende da qualcos’altro. E la cosa ancora più spiazzante è che questo qualcos’altro da cui dipende cambia di continuo, di momento in momento.

Se tutto ciò di cui una cosa è composta dipende dall’esistenza di qualcos’altro, possiamo dire che quella cosa è impersonale. E questo vale anche per noi stessi. O meglio, vale per il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza. Tutto ciò di cui siamo fatti ha il carattere dell’impersonalità. Ma questo non è deprimente. Al contrario: è liberatorio, perché ci rende liberi dall’attaccamento e dall’avversione nei confronti dei fenomeni che ci si presentano di continuo.

Paolo Subioli

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[La foto sull’impersonalità è di Pixabay]

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