Il sé esperienziale e il sé narrante sono le due facce della nostra personalità, spesso in conflitto tra loro. Secondo lo storico Harari esse dimostrano che non esiste un unico sé a cui riferirsi.
L’idea secondo cui ciascuno di noi ha un solo sé e può quindi distinguere i suoi veri desideri dalle voci estranee è solo un mito liberale, sfatato dalle ultime scoperte scientifiche.
A tali conclusioni sono giunti ad esempio gli economisti comportamentali, interessati a capire come le persone prendano decisioni economiche. O, più precisamente, chi prenda queste decisioni. Chi decide di comprare una Toyota invece che una Mercedes, di andare in vacanza a Parigi invece che in Thailandia e di investire in buoni del tesoro sudcoreani invece che nella Borsa di Shanghai? Dalla maggior parte degli esperimenti emerge che non è mai un solo sé a fare queste scelte. Esse sono piuttosto il risultato di un tiro alla fune tra diverse entità interiori, spesso in conflitto tra loro.
Un esperimento rivoluzionario è stato quello condotto da Daniel Kahneman, premio Nobel per l’Economia nel 2002. Kahneman raccolse un gruppo di volontari per uno studio in tre fasi. Nella fase “breve” i soggetti dovevano infilare la mano in un recipiente pieno d’acqua a 14 °C per 1 minuto: un’esperienza sgradevole, quasi dolorosa. Dopo sessanta secondi potevano tirare fuori la mano. Nella fase “lunga” dell’esperimento i volontari mettevano l’altra mano in un recipiente diverso: l’acqua contenuta al suo interno era sempre a 14 °C ma dopo sessanta secondi — senza che loro lo sapessero — nel contenitore veniva immessa acqua calda, che faceva salire la temperatura a 15 °C. Trenta secondi dopo i soggetti erano autorizzati a tirare fuori la mano. Alcuni volontari si sottoponevano prima alla fase “breve”, altri iniziavano da quella “lunga”; in entrambi i casi, esattamente sette minuti dopo la fine delle prime due fasi iniziava la terza, quella più importante: i partecipanti venivano informati che dovevano ripetere una delle due fasi, e spettava a loro scegliere quale. Ebbene, l’80% preferiva ripetere la fase “lunga”, perché la ricordava come meno dolorosa.
L’esperimento con l’acqua fredda è semplicissimo, eppure le sue implicazioni scuotono le fondamenta della visione del mondo liberale, perché rivelano che dentro ognuno di noi esistono almeno due diversi sé: il sé esperienziale e il sé narrante. Il sé esperienziale è la nostra coscienza “minuto per minuto”, e dal suo punto di vista è ovvio che la parte “lunga” dell’esperimento sia stata la peggiore. Prima bisogna tenere la mano nell’acqua a 14 °C per sessanta secondi, il che è fastidioso esattamente come nella parte “breve”, ma poi si è costretti a sopportare altri 30 secondi a 15 °C, il che è leggermente meno peggio ma ancora ben lungi dall’essere piacevole. Per il sé esperienziale far seguire un’esperienza lievemente sgradevole a una molto sgradevole non serve affatto a rendere l’intero episodio più appetibile.
Il sé esperienziale, però, non ha memoria. Non racconta storie e di rado viene consultato quando si tratta di prendere decisioni importanti. Richiamare ricordi, raccontare storie e prendere decisioni cruciali sono prerogativa esclusiva di un’entità molto diversa: il sé narrante. Il sé narrante è costantemente impegnato a tessere storie sul passato e fare progetti per il futuro. Come ogni giornalista, poeta e politico, il sé narrante prende molte scorciatoie: non racconta proprio tutto, e di solito costruisce la trama usando solo i momenti clou e gli esiti finali. Il valore dell’esperienza nel suo complesso, quindi, è determinato dalla media tra picchi e risultati. Nel valutare la fase breve dell’esperimento con l’acqua fredda, per esempio, il sé narrante fa una media tra il momento peggiore (l’acqua era molto fredda) e l’ultimo momento (l’acqua era ancora molto fredda), e conclude che “l’acqua era molto fredda”. Il sé narrante fa la stessa cosa con la fase lunga: calcola la media tra il momento peggiore (l’acqua era molto fredda) e l’ultimo momento (l’acqua non era più così fredda), e conclude che “l’acqua era un po’ più calda”. Il punto cruciale è che l’io narrante è completamente insensibile alla durata e non dà alcuna importanza alla diversa lunghezza delle due fasi. Perciò, di fronte a una scelta, preferisce ripetere la fase lunga, quella in cui “l’acqua era un po’ più calda”.
Ogni volta che il sé narrante giudica le nostre esperienze, ne ignora la durata e adotta la “regola del picco-fine”: si ricorda solo del momento di picco e del risultato finale, e valuta l’intera esperienza in base alla loro media. Questo ha un impatto enorme su tutte le nostre decisioni pratiche. Kahneman iniziò a studiare il sé esperienziale e il sé narrante nei primi anni novanta, insieme a Donald Redelmeier dell’Università di Toronto, osservando pazienti sottoposti a colonscopia. Durante questo esame una microcamera viene inserita nell’intestino attraverso l’ano per diagnosticare varie malattie di questo apparato. Non è un’esperienza piacevole, e i medici volevano sapere qual era il modo migliore per praticare l’esame provocando il minor dolore possibile: un’esecuzione rapida che causava maggior disagio per un tempo più breve, oppure una più lenta e delicata?
Per rispondere alla domanda, Kahneman e Redelmeier chiesero a 154 pazienti di riferire il livello di dolore accusato durante la colonscopia, a intervalli di 1 minuto, su una scala da 0 a 10, dove 0 indicava “nessun dolore” e 10 “dolore insopportabile”. Al termine dell’esame i pazienti dovevano classificare, sempre su una scala da 0 a 10, il “livello di dolore complessivo”. Ci si sarebbe aspettati che la valutazione complessiva riflettesse la somma delle valutazioni minuto per minuto, e cioè che più a lungo era durata la colonscopia, più dolore aveva sperimentato il paziente, e quindi più alto sarebbe stato il livello di dolore complessivo dichiarato. Ma i risultati non furono questi.
Proprio come nell’esperimento con l’acqua fredda, il livello di dolore complessivo non teneva conto della durata dell’esame, ma si basava solo sulla regola del picco-fine. Una colonscopia, per esempio, era durata otto minuti: nel momento peggiore il paziente aveva dichiarato un livello di dolore pari a 8, e nell’ultimo minuto un livello di dolore pari a 7; alla fine del test riferiva un livello di dolore complessivo di 7,5. Un’altra colonscopia era durata ventiquattro minuti: anche stavolta il picco di dolore era a livello 8, ma nell’ultimo minuto il paziente aveva dichiarato un livello di dolore pari a 1. Per lui il dolore complessivo non superava il 4,5. Il fatto che la sua colonscopia fosse durata il triplo della precedente, e che di conseguenza nel complesso lui avesse sofferto molto di più, non aveva influito in alcun modo sul suo ricordo. Il sé narrante non somma le esperienze: ne fa una media.
Allora, che cosa preferiscono i pazienti: un’esecuzione brusca ma breve, oppure una lunga e delicata? Non c’è una risposta univoca, perché ogni paziente possiede almeno due diversi sé, che perseguono interessi differenti. Se chiedete al sé esperienziale, probabilmente sceglierebbe la colonscopia breve. Ma se chiedete al sé narrante, preferirà la colonscopia lunga perché si ricorda solo della media tra il momento peggiore e l’ultimo minuto. Anzi, dal punto di vista del sé narrante il medico farebbe bene ad aggiungere una manciata di minuti completamente superflui di dolore sordo proprio alla fine dell’esame, perché renderebbe l’intero ricordo molto meno traumatico.
I pediatri conoscono bene questo trucchetto, così come i veterinari. Molti tengono in ambulatorio dei barattoli di caramelle e ne danno qualcuna ai loro piccoli pazienti dopo un’iniezione dolorosa o una visita poco piacevole. Quando il sé narrante si ricorderà dell’episodio, quei dieci secondi di piacere al termine della visita cancelleranno i tanti minuti di ansia e dolore.
L’evoluzione ha scoperto questo stratagemma millenni prima dei pediatri. Considerati gli insopportabili tormenti che molte donne affrontano durante il parto, verrebbe da pensare che, una volta fatta l’esperienza, nessuna donna sana di mente acconsentirebbe a replicarla. Ma alla fine del travaglio e nei giorni successivi il sistema endocrino secerne cortisolo e beta-endorfine, ormoni che riducono il dolore e generano una sensazione di sollievo, talvolta persino di esaltazione. Inoltre l’amore crescente per il bambino e il plauso di amici, parenti, dogmi religiosi e propaganda nazionalista concorrono a trasformare il parto da trauma a ricordo positivo.
Uno studio condotto al Rabin Medical Center di Tel Aviv ha dimostrato che il ricordo del travaglio riflette soprattutto i punti di picco e fine, mentre la durata complessiva non ha alcun impatto o quasi. In un’altra ricerca, a 2428 donne svedesi è stato chiesto di raccontare ciò che ricordavano del travaglio due mesi dopo aver partorito: il 90% affermava che l’esperienza era stata positiva o molto positiva. Non necessariamente avevano dimenticato il dolore — che nel 28,5% dei casi veniva descritto come il peggiore immaginabile —, ma ciò non aveva impedito loro di valutare l’esperienza come positiva.
Il sé narrante riesamina le nostre esperienze con un paio di forbici affilate e un pennarello nero a punta spessa, censurando almeno alcuni momenti di orrore e memorizzando nell’archivio una storia a lieto fine.
La maggior parte delle scelte importanti che facciamo nella vita — riguardo al partner, alla carriera, alla casa e alle ferie — è prerogativa del nostro sé narrante. Supponete di poter scegliere tra due possibili mete per le vacanze. Potete andare a Jamestown, in Virginia, e visitare il villaggio coloniale dove nel 1607 si stabilì il primo insediamento inglese sul continente nordamericano. In alternativa potete realizzare il vostro sogno: fare trekking in Alaska, crogiolarvi al sole in Florida o indulgere in un baccanale sfrenato di sesso, droga e gioco d’azzardo a Las Vegas. A una condizione, però: se scegliete la vostra meta dei sogni, subito prima di salire sull’aereo che vi riporterà a casa dovrete mandar giù una pillola che cancellerà tutti i vostri ricordi della vacanza. Quello che è successo a Las Vegas resterà a Las Vegas per sempre. Allora, che cosa scegliereste? La maggior parte delle persone opterebbe per Jamestown, perché la maggior parte delle persone concede un credito illimitato al sé narrante, che è interessato soltanto alle storie e snobba completamente persino le esperienze più esaltanti, se non può ricordarsele.
In realtà, sé esperienziale e sé narrante non sono entità del tutto separate, bensì strettamente interconnesse. Il sé narrante usa e nostre esperienze come materiale grezzo importante (ma non esclusivo) per le sue storie; storie che, a loro volta, determinano ciò che il sé esperienziale sente. Sperimentiamo la fame in maniera diversa se digiuniamo perché è Ramadan o in vista di un esame medico oppure se non mangiamo perché non abbiamo i soldi per comprare del cibo. I diversi significati che il sé narrante ascrive alla fame producono esperienze reali molto differenti.
Ma c’è di più. Spesso il sé esperienziale è abbastanza forte da sabotare anche i piani meglio congegnati del sé narrante. Per esempio, come buon proposito per il nuovo anno io potrei stabilire di mettermi a dieta e andare in palestra tutti i giorni. Risoluzioni roboanti come questa sono monopolio del sé narrante. La settimana successiva, però, quando è ora di andare in palestra, il sé esperienziale ha il sopravvento: non mi va di uscire, ordino una pizza, mi metto sul divano e accendo il televisore.
Ciò nonostante, la maggior parte di noi si identifica con il proprio sé narrante. Quando diciamo “Io”, intendiamo la storia che abbiamo nella testa, non il fiume in piena di esperienze che viviamo. Ci identifichiamo con quel sistema interiore che prende l’ingarbugliata matassa della vita e ne ricava un filo apparentemente logico e coerente. Non importa se la trama è piena di lacune e bugie, né che venga riscritta in continuazione, per cui la storia di oggi contraddice completamente quella di domani. L’importante è che noi conserviamo la sensazione di avere una sola, immutabile identità dal momento in cui nasciamo a quello in cui moriamo (e magari anche oltre). Questo genera la discutibile convinzione liberale in base alla quale io sono un individuo e possiedo una voce interiore chiara e coerente che dà senso all’intero universo.
Vuoi ricevere gli aggiornamenti da Zen in the City?
Inserisci il tuo indirizzo per ricevere aggiornamenti (non più di 1 a settimana):
You need to login or register to bookmark/favorite this content.