
Essere Qualcuno è per molti l’obiettivo principale della vita. Ma Norman Fischer, attraverso l’episodio di Ulisse e Polifemo, dimostra come spesso convenga essere Nessuno.
Essere Qualcuno o essere Nessuno?
Nella cultura greca antica, qualità come la furbizia o l’intelligenza erano associate con la civilizzazione, l’abilità di contraffare e perfezionare la natura. Questa furbizia civilizzata è anche parte del nostro processo interno: crescendo e imparando a sopravvivere in questo complicato, controverso mondo, noi tutti creiamo storie che sono in parte vere e in parte false, immagini di un’identità che possiamo presentare al mondo come un volto coerente e, si spera, reale. La furbizia, l’astuzia e l’inganno sono temi importanti anche per noi, ed entrano prepotentemente in gioco nel disastro che attende Odisseo a questo punto della sua storia.
Odisseo e i suoi uomini approdano sull’isola dei ciclopi. A differenza di Odisseo, e a differenza nostra, i ciclopi non hanno alcuna abilità. Vivono naturalmente e in modo semplice, senza ricercatezza. Non costruiscono case ma vivono in caverne. Non coltivano i campi ma basano la loro sussistenza sulla carne e il latte fornito dal loro bestiame. Vivono separati gli uni dagli altri, senza mai incontrarsi in assemblee, ognuno con le proprie leggi. Non costruiscono navi, e dunque non possono andare in cerca di altre terre, di altre conoscenze. Dotati di un solo occhio, non hanno percezione della profondità, Isolati dal mondo e gli uni dagli altri, i ciclopi passano il loro tempo con le primitive attività del mangiare, dormire e pascolare il gregge. Non hanno cultura, abilità, e non conoscono l’inganno. Ma lo stare da soli, l’essere grezzi e autosufficienti ha dato loro un vantaggio: li ha resi grandi, enormi. Infatti sono dei giganti.
Alle volte, stanchi di tutti i nostri artifici, desideriamo di essere naturali, di liberarci di tutte le storie e semplicemente di “essere noi stessi”. Ma non è così facile. Per quanto ci possiamo sentire assediati dalle nostre storie, è vero anche che esse ci proteggono, e ci forniscono qualcosa di cui abbiamo estremamente bisogno. I ciclopi sono creature che sono semplicemente loro stesse. Essi sono come noi saremmo senza astuzie, artifici, destrezza, inganni e storie. Non hanno bisogno di una facciata sociale in quanto non comunicano con gli altri. Senza comunicazione, senza scambi e interrelazioni, l’ego può crescere senza restrizioni, divenendo rude, rozzo, scatenato. Lasciato alla propria natura, incontrollato, nutrito dalle ricchezze della natura, l’ego cresce enormemente, pensa solo a se stesso, senza nessuna preoccupazione per gli altri o cognizione degli altri. Una tale sé diviene trascurato, rozzo e sfacciato. Dunque l’ego è mezzo cieco, come i ciclopi da un occhio solo, in quanto vede se stesso ma non gli altri. E questa mancanza di percezione e parallasse, come vedremo presto, è una condizione di vulnerabilità.
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Odisseo e i suoi uomini, in cerca di provviste, arrivano per caso alla grotta del ciclope Polifemo, il quale, al momento, è fuori con il suo gregge. Gli uomini, dopo aver banchettato con latte e formaggio, sono sul punto di sgattaiolare via, ma Odisseo, in uno dei suoi tanti disastrosi errori di giudizio, non li lascia andare via. E curioso di vedere che genere di persone siano i ciclopi. L’ospitalità nei confronti degli stranieri era una virtù cardinale nella cultura greca antica, come abbiamo visto con Odisseo a Scheria, e con Telemaco che ospita Atena a Itaca. Secondo la cultura di Itaca, quando uno straniero arrivava su una nave era il benvenuto, veniva nutrito e riempito di regali, ancor prima che gli venisse chiesto il nome. Dunque Odisseo decide di rimanere nella grotta del ciclope, in attesa del ritorno di questi, e aspettandosi un trattamento gentile.
Ma quando Polifemo ritorna, blocca l’uscita della grotta con un enorme masso, così pesante che ci vorrebbero ventidue carri – ci viene detto – per smuoverlo. Odisseo e i suoi sono terrorizzati dall’ingresso del ciclope e si ritirano nel fondo dell’antro, incapaci di annunciare la loro presenza. Quando Polifemo scopre gli intrusi (che a lui paiono piccoli come topi) ride vigorosamente e chiede loro chi siano e da dove vengano. Il furbo Odisseo, che non è persona da dire la verità in circostanze difficili, mente e afferma che la loro nave è stata distrutta e che sono giunti in cerca di riparo e ospitalità. Il ciclope ignora la richiesta di aiuto di Odisseo. In una scena narrata con dettagli cruenti, il ciclope sbatte la testa di alcuni uomini contro la parete della caverna e li divora per intero – organi, ossa e tutto il resto – con gran gusto, innaffiando il pasto con secchiate di latte di capra. Odisseo e i suoi uomini superstiti sono atterriti.
Pensando di non aver nulla da temere da parte di questi patetici piccoli ospiti, Polifemo va a dormire. Odisseo affila la sua spada pronto a vendicare il massacro del suo equipaggio, ma presto realizza che in tal modo egli segnerebbe il destino suo e dei suoi uomini, in quanto essi non sarebbero mai capaci di sollevare l’enorme masso che blocca la porta. Dunque uccidere Polifemo vorrebbe dire intrappolare tutti nella caverna per sempre. Il mattino seguente Polifemo si sveglia e fa colazione con altri uomini. A questo punto è chiaro che Odisseo ha bisogno di un piano. Egli prepara un enorme palo appuntendone un’estremità e indurendola sul fuoco. Quando il ciclope torna dopo il pascolo, Odisseo gli offre un vino speciale e Polifemo beve a piacimento fino a ubriacarsi. Dimmi il tuo nome, Polifemo chiede a Odisseo, e io ti farò un dono ospitale. “Nessuno mi chiamano” risponde Odisseo, e allora Polifemo dice: “Nessuno io mangerò per ultimo, dopo i compagni; gli altri prima; questo sarà il dono ospitale” e si addormenta ubriaco.
A questo punto Odisseo e alcuni dei suoi uomini più forti infilano il palo arroventato nel singolo occhio di Polifemo. Questi, accecato, urla di dolore e di rabbia e chiede aiuto. Gli altri ciclopi giungono alla porta della grotta e a gran voce chiedono cosa stia succedendo lì dentro, se qualcuno stia attaccando Polifemo, il quale risponde: “Nessuno, amici, m’uccide d’inganno e non con la forza”. Allora gli altri ciclopi dicono: “Se dunque nessuno ti fa violenza e sei solo, del male che ti manda il gran Zeus non c’è scampo ” e convinti di non poter far nulla, se ne vanno. Il giorno seguente, quando Polifemo lascia uscire il suo gregge dalla porta della caverna, Odisseo e i suoi uomini fuggono legandosi sotto la pancia delle capre.
La morale di questo racconto è molto chiara: quando ci si trova di fronte alla violenza dell’eccessivo egoismo, l’essere Nessuno è la migliore via d’uscita. L’artificio di essere Nessuno è l’antidoto contro l’ottusa brutalità dell’egocentrismo.
In alcuni ambienti spirituali l’altruismo rappresenta uno degli interessi principali. Ciò non mi è mai suonato bene. Anche il solo sforzo di essere “buoni” suona troppo idealistico, sembra negare eccessivamente la pungente furbizia del nostro umano carattere e la persistenza delle nostre storie astute. D’altra parte mi sembra difficile che si possa essere capaci di raggiungere il vero altruismo o la vera bontà. Il continuo sforzo di ottenere questo scopo irraggiungibile ci renderà ancora più insoddisfatti delle nostre vite. Non sarebbe meglio semplicemente cercare di essere se stessi, con la fiducia che ciò, anche se con un po’ di confusione, sarà sufficiente? Ma anche questo è un compito non facile. Ben pochi di noi sono desiderosi di essere veramente se stessi. Nella maggior parte dei casi neghiamo, rimproveriamo, o ignoriamo noi stessi, preferendo l’auto inganno, il giudizio, o il semplice oblio. L’essere noi stessi implica la consapevolezza e l’accettazione dei nostri artifici e delle nostre imperfezioni, e tale consapevolezza ci doma e in tal modo diventa possibile comprendere e apprezzare le nostre e le altrui stranezze. Dona una più ampia e più profonda prospettiva. La perfezione non è il nostro fine spirituale. Non aspiriamo a essere Nessuno. Siamo e abbiamo bisogno di essere Qualcuno. Abbiamo bisogno di essere abbastanza astuti e abili per poter interagire con gli altri, ma dobbiamo evitare il rischio di insuperbifci e di divenire presuntuosi, ciechi ed egoisti. Ma per essere Qualcuno in modo equilibrato, senza strafare come fanno i ciclopi, dobbiamo apprezzare l’esperienza di essere Nessuno di tanto in tanto.
Essere Nessuno non vuol dire entrare in qualche fantastica condizione di altruismo. Vuol dire semplicemente essere disposti e capaci, quando è il momento, di abbandonare il sé, di lasciar andare il Qualcuno e arrendersi alle circostanze. Facciamo questo come una disciplina quando rinunciamo al sé in meditazione o in preghiera. Lo facciamo anche in quei rari ma appassionanti momenti di abbandono che possono manifestarsi con l’arte, il lavoro o l’amore. Potremmo aver bisogno di farlo in ogni attimo dell’esistenza, lasciando andare sul momento ciò che crediamo di essere e ciò che crediamo di volere, essendo disposti a cambiar vita, e avendo fiducia in ciò che accade piuttosto che valutare e resistere. Essere Nessuno vuol dire galleggiare sul mare delle storie con fiducia, e senza fare troppa schiuma, pronti a cogliere la corrente giusta che ci conduca dove abbiamo bisogno di andare.
Ho un amico che faceva l’avvocato a Washington (D.C.). Il suo lavoro era estremamente pressante e frenetico, in una città molto pressante e frenetica, in un pazzo mondo. Il suo sogno era sempre stato quello di essere Qualcuno, di operare ai più alti livelli della società, non per essere importante, ma per portare nel mondo quei cambiamenti nei quali credeva profondamente. Per anni ebbe molto successo. Fece carriera e realizzò alcune cose. Fece anche molti soldi, e ottenne una buona reputazione, ma pagando un gran prezzo sia a livello personale sia psicologico. Anno dopo anno poteva sentire la sua anima e il suo cuore affondare sempre più a causa dello stress dovuto al costante sforzo di essere Qualcuno, senza alcuno spazio ristoratore dove essere Nessuno. Alla fine, dopo dieci o più anni di questa vita, ebbe un crollo mentale ed emotivo. Non ebbe altra scelta che prendersi del tempo libero per guarire e rivedere la propria situazione.
Venne in California e ci incontrammo un po’ di volte. Potevo quasi sentirlo mentre ripercorreva la vita nella sua mente, rimuginando su cosa era successo e su cosa fare adesso. Alla fine sentì che la scelta era tra queste opzioni: o comprendere il suo esaurimento come un’aberrazione, un anomalia, dovuta al troppo lavoro, e dunque rimettersi in sesto con del riposo e dei farmaci e poi rientrare nella mischia, oppure considerare l’esaurimento non come una malattia ma come l’ordinaria risposta di una persona ordinaria a una situazione molto difficile, e ammettere.che, come chiunque altro, egli era un essere umano e dunque vulnerabile. Il mio amico scelse la seconda opzione. Comprese che non poteva semplicemente superare i suoi problemi il più velocemente possibile e andare avanti con l’essere Qualcuno come se nulla fosse successo. Aveva invece bisogno di integrare l’esaurimento nella sua vita e nella sua personalità, e riprendere la sua carriera su nuove basi. Gli ci volle un bel po’ di tempo per guarire, e alla fine riprese l’attività legale, ma non a Washington, e con una nuova visione di se stesso: non più come il manovratore e il trascinatore di folle che immaginava di essere, ma come una persona la cui missione era quella di aiutare gli individui, per quello che era possibile, attraverso il suo lavoro da legale. Per divenire un Qualcuno sostenibile egli ha dovuto prima accettare di essere, come noi tutti, Nessuno.
Nella cultura dell’antica Grecia, come nella nostra, il proteggere il buon nome era molto importante. In verità, senza la preoccupazione per il nome e la posizione, poche cose accadrebbero in questo mondo. Non è una cosa cattiva essere orgogliosi dei propri risultati e della propria reputazione. Se gli Achei non fossero stati preoccupati per il loro onore e per la gloria della vittoria, non avrebbero mai marciato in guerra verso Troia; e senza la partenza, non ci sarebbe stato il ritorno a casa. Noi tutti abbiamo bisogno di un nome, un luogo, un’identità. Ma dobbiamo anche essere disposti a entrare nella condizione dell’essere Nessuno, quale fondamento per qualunque altra cosa vogliamo essere.
Alle volte entriamo in tale condizione all’improvviso e in maniera inaspettata. Ho un altro amico che è estremamente brillante, realizzato e intuitivo; ha soltanto una quarantina d’anni ma ha già approfondito diverse professioni: laureato in Medicina, è poi divenuto un professore di storia medica, qualche anno dopo si è laureato in Legge e ora è un procuratore specializzato in casi medici. Negli affari personali è scrupoloso all’eccesso, e sembra sempre comprendere non soltanto quello che una persona sta dicendo, ma anche ciò che la persona intende dire realmente, al di là delle parole. Negli anni mi ha aiutato in tante faccende che non ero in grado di risolvere da solo. Una conduttura rotta, una disputa legale, un problema finanziario – tutte cose che sa risolvere. Ma, mi ha detto, è stancante essere lui! La sua mente è così attiva, il suo spirito è così in cerca che sembra non esserci spazio per il riposo. Consapevole delle tante possibilità che offre questo mondo – delle tante opportunità di crescita e guadagno, o del numero ancora più alto delle possibilità di disastri – egli costantemente pensa o programma una cosa o l’altra. Ha inoltre fatto molti ritiri Zen, che gli hanno dato molta pace e sollievo (è anche un abile meditatore dalla non comune abilità di concentrare e calmare la mente su un oggetto di meditazione), ma non appena terminano i ritiri egli recupera il fardello dell’essere se stesso.
Un giorno ha avuto un’esperienza sorprendente durante una riunione di lavoro presso il suo studio legale. Qualcuno stava parlando e lui all’improvviso e senza una particolare ragione si è assorbito completamente nell’ascolto della persona, semplicemente ascoltando, senza fare valutazioni, senza considerare le opzioni, i vantaggi, gli svantaggi o le trappole, ma semplicemente ascoltando, totalmente, completamente. “Stavo ascoltando così profondamente tanto che sono scomparso”, mi ha detto. L’esperienza lo aveva assorbito completamente. Ma all’improvviso tornò in sé. Fu come svegliarsi da un sogno. In quel momento comprese che aveva perso il controllo, che non era se stesso. E dunque si spaventò molto. L’intera esperienza durò solo un momento o due, e poi tutto tornò a posto. Durante le settimane successive, metabolizzando l’esperienza, cominciò a sentire che perdere se stesso completamente era stato rasserenante e rilassante. Sebbene un attimo dopo si fosse spaventato, in quel momento di sparizione sentì una pace che non aveva mai sentito prima.
Emily Dickinson scrisse di questo essere Nessuno con una sana dose di umorismo:
Sono Nessuno! E tu?
Sei – Nessuno – anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Farebbero rumore, sai!
Che noia – essere – Qualcuno!
Che cosa pubblica – come una Rana –
Dire il proprio nome – un lungo giorno di giugno –
A una Palude ammirata!
La storia di Polifemo non finisce con l’audace e sanguinosa fuga di Odisseo dalla grotta. C’è una coda importante, Mentre salpa, Odisseo non riesce a non vantarsi della propria intelligenza. Urla a Polifemo che questi ha avuto ciò che si meritava, e che se voleva sapere chi lo avesse accecato, ebbene era stato Odisseo, figlio di Laerte, di Itaca, Polifemo, anche se senza vista, udendo le parole di Odisseo, va su tutte le furie, strappa la cima di un monte vicino e la scaglia nella direzione della nave. La manca, ma l’impatto genera un’onda che spinge la flotta indietro alla spiaggia. Odisseo riesce a fuggire nuovamente, ma non prima che Polifemo maledica il suo nome, pregando il proprio padre Poseidone di impedire a Odisseo di ritornare in patria, e se questo non può essere impedito, che almeno torni “tardi, male ci arrivi, perduti tutti i compagni, su nave altrui, trovi in casa sciagure”
Questa maledizione è la causa di tutte le successive sciagure di Odisseo. Spiega perché Poseidone lo perseguiti per dieci anni, e perché ogni volta che dispiega le vele venga sballottato da una tempesta. La maledizione chiesta da Polifemo predice esattamente ciò che accadrà a Odisseo durante il suo viaggio di ritorno.
Questo sembra abbastanza aderente alla vita. Accettare che siamo Nessuno non è facile. Può costarci molto, e anche se ci capita per caso, all’inizio può spaventarci. Ma il digerire l’esperienza di essere Nessuno non ci cura per sempre dall’orgoglio e dall’egoismo che possono attirare su di noi delle maledizioni proprio quando pensiamo che la fuga sia a portata di mano. In molti testi buddhisti è scritto che solo il più alto adepto spirituale può vedere attraverso il sottile orgoglio dell’attaccamento al sé. Anche la capacità di entrare in profondi stati di meditazione e avere profonde intuizioni spirituali non assicura che non si venga più fatti inciampare, di tanto in tanto, dalla vecchia abitudine di essere Qualcuno, un qualcuno che gli altri ammirino o invidino. Ho visto inciampare in tal modo e regolarmente me stesso, praticanti spirituali esperti, e alle volte, e in maniera spettacolare, anche colleghi, insegnanti spirituali che hanno generato enormi problemi a loro stessi e alle loro comunità con i disastri che accompagnano quel piccolo, non notato, pezzo di egoismo distruttivo, troppo spesso mascherato da un eccezionale potere spirituale. Che grandi ondate e fulmini tonanti gli ho visto scatenare!
Tuttavia è interessante notare che l’errore di Odisseo è anche, in qualche modo, un non-errore. Sebbene porti altri problemi e disastri, si tratta di problemi e disastri dei quali egli ha bisogno per tornare a casa nel momento e nel modo giusto.
Da: Norman Fischer, “Tornare a casa. Un commento zen all’Odissea“, Edizioni La Parola, 2010.
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Tornare a casa. Un commento zen all’Odissea

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