
Spesso tendiamo a compiacere gli altri, per non deludere le loro aspettative, andando alla ricerca di una perfezione che nessuno ci ha chiesto. Ma la vera salvezza consiste nell’accettare i propri limiti.
Christian Bobin scrive:
Non sono mai stato molto portato per gli esami. Non che fossi un cattivo alunno, come si suol dire. Quando indovinavo cosa ci si aspettava da me, allora lo davo. Facevo dell’arte di apprendere un’arte davvero sottile dell’offerta: bisogna dare all’altro ciò che egli si aspetta, non ciò che auspicate per voi. Ciò che spera, non ciò che siete. Perché ciò che spera, non è mai ciò che siete, è sempre un’altra cosa. Ho imparato molto presto, dunque, a dare quello che non avevo (Elogio del nulla).
L’uomo è uno splendido attore. Il dramma che recita è vivere secondo quello che gli altri si aspettano da lui e non secondo ciò che è in grado di compiere realmente la sua storia, ovvero la verità.
Il problema è che l’altro attende da noi sempre qualcosa di diverso da ciò che siamo; questo comporta inevitabilmente dare e manifestare sempre quello che non abbiamo e che, alla fine, non siamo. La questione sarà sempre apparire agli altri perfetti, non macchiati da limiti o fragilità, ovvero vivere attraverso quelle performance che essi s’aspettano da noi e che ci rendono ben accetti, ben voluti. Amati.
Questo lo impariamo sin da piccoli verso i genitori, per poi viverlo con gli insegnanti, gli educatori, i datori di lavoro, il proprio partner, noi stessi e Dio.
Ma non si può vivere una vita così; non si può resistere in un continuo sforzo di mostrarsi adatti, performanti, perfetti, per rassicurare gli altri al fine di far loro piacere.
Un principio basilare per il nostro percorso di vita è: «Non farti condizionare dagli altri. Non farti prescrivere dagli altri che strada devi percorrere. Vai per la tua strada. Diventa te stesso. Scopri la forma autentica e incontaminata che il Signore ti ha attribuito. E abbi il coraggio di vivere l’aspetto originario di te stesso. Chi eri prima che i tuoi genitori ti educassero? Chi eri in Dio prima di nascere?». Rammentati il tuo nucleo divino. Se entri in contatto con esso, puoi percorrere in libertà la tua strada (Anselm Grün, Il libro dell’arte della vita).
Il dramma per noi cristiani è il desiderio d’essere performanti anche dinanzi a Dio. Abbiamo fatto del cristianesimo la religione del «tendere al perfezionismo morale» – confondendolo con la santità –, come se fosse l’unica condizione per ottenere l’amore di Dio e i suoi doni. Ma l’unico dono che Dio potrà concedermi non sarà altro che se stesso, ovvero: Amore, perdono e misericordia. E tutto questo potrà donarmelo solo quando mi riconoscerò necessitante di amore, peccatore e misero.
La santità che ci propone Gesù non è di ordine naturale, ma è una santità da accogliere nella nostra povertà. Cristo è venuto per i peccatori e i deboli, e non per i forti che stanno bene. Lo schema di perfezione umana basato sulla volontà e l’ascesi segue un tracciato esattamente opposto a quello della santità che ci propone Gesù nel Vangelo (André Daigneault, La via dell’imperfezione).
La salvezza per noi giungerà non quando avremo sconfitto le nostre miserie, ma quando cominceremo a vivere nella verità di noi stessi, ad accettarci cioè con le nostre fragilità. Noi siamo le nostre imperfezioni, le nostre ferite, i nostri peccati. Non siamo altro, anche se magari lo desideriamo, anche se ci nascondiamo dietro a delle maschere e recitiamo copioni che non ci competono.
Il Vangelo è una scuola di realismo. Gesù è venuto a toglierci le maschere di teatranti, perché siamo finalmente liberi di essere noi stessi, a costo di apparire inadatti e folli agli occhi del mondo.
Mi chiedi in quale modo io sia divenuto folle. Accadde così: un giorno, assai prima che molti dèi fossero generati, mi svegliai da un sonno profondo e mi accorsi che erano state rubate tutte le mie maschere – le sette maschere che in sette vite avevo forgiato e indossato –, e senza maschera corsi per le vie affollate gridando: «Ladri, ladri, maledetti ladri». Ridevano di me uomini e donne, e alcuni si precipitarono alle loro case, per paura di me. E quando giunsi nella piazza del mercato, un giovane dal tetto di una casa gridò: «È un folle». Volsi gli occhi in alto per guardarlo; per la prima volta il sole mi baciò il volto, il mio volto nudo. Il sole baciava per la prima volta il mio viso scoperto e la mia anima avvampava d’amore per il sole, e non rimpiangevo più le mie maschere. E come in trance gridai: «Benedetti, benedetti i ladri che hanno rubato le maschere». Fu così che divenni folle. E ho trovato nella follia la libertà e la salvezza: libertà dalla solitudine e salvezza dalla comprensione, perché quelli che ci comprendono asserviscono sempre qualcosa in noi (Kahlil Gibran, Il folle).
Gesù è venuto a liberarci dalla paura di non essere all’altezza di fronte a chicchessia: noi stessi, l’altro, Dio. Adamo, l’uomo di sempre, si è nascosto per questo. Era nudo e ha avuto paura. Dinanzi a Eva si è difeso accusandola, dinanzi a Dio si è nascosto nel baratro.
Il Vangelo è una continua memoria dell’incarnazione; il Dio fattosi accanto non è venuto a toglierci l’inadeguatezza, la fragilità, il limite, ma a liberarci dalla paura che tutto questo esercita su di noi, perché non siamo schiacciati sotto questo peso immane.
Occorre restituire alle nostre ferite il diritto di cittadinanza!
Il rapporto con noi stessi e la nostra vita quotidiana (sociale, familiare, relazionale) diverranno «paradisiaci» quando riusciremo ad accoglierci ed amarci non malgrado, ma attraverso tutte le nostre ferite e le nostre debolezze.
Una comunità – sia essa civile, familiare, religiosa – è un paradiso non se tutti sono perfetti e non ci sono tensioni, bensì quando ciascuno può vivere la libertà di abbassare la maschera perché si sente accettato e amato così com’è; quando limiti, peccati, ferite e tradimenti non sono più occasioni di divisione e maledizioni, ma luoghi dove potersi amare e perdonare.
Da: Paolo Scquizzato, “Elogio della vita imperfetta: La via della fragilità”, Effatà, 2013.
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