Film “Lei”: per capirlo devi conoscere Alan Watts

Nel momento clou del bellissimo film “Lei“, di Spike Jonze, entra in scena Alan Watts, quale personaggio virtualmente ricostruito in qualità di sistema operativo, in un mondo (lontano da oggi di pochi anni) in cui l’intelligenza artificiale è superiore a quella umana. La coprotagonista, Samantha, è infatti un sistema operativo interpretato dalla voce di Scarlett Johanssen, che si prende sempre più libertà.
Si potrebbe non fare troppo caso al nome di questo personaggio, con cui Samantha stabilisce una relazione senza chiedere il permesso al proprio proprietario Theodore -interpretato dal bravo Joaquin Phoenix – e leggere il film come un’interessane riflessione sul nostro rapporto coi media digitali, che ci rendono dipendenti in misura crescente dalla loro sempre più raffinata intelligenza. Fino al giorno, che presto arriverà, della “singolarità tecnologica“, ovvero il punto nel quale il progresso tecnologico raggiungerà dei livelli per noi non più comprensibili, addirittura autonomi, nel caso delle intelligenze artificiali.
Ma l’inglese Alan Watts (1915-1973) ci offre un’altra chiave interpretativa del film Lei, decisamente più interessante. Watts è stato uno dei filosofi più originali e influenti del secolo scorso. Noto soprattutto come esponente del buddhismo zen, è stato persino pastore episcopale (gli anglicani Usa), sperimentatore di droghe psichedeliche e icona della controcultura degli anni ’60. Ma il suo contributo maggiore l’ha dato forse come divulgatore in Occidente delle filosofie orientali ed oggi è considerato il padre spirituale del pensiero non dualista, che trova sempre più seguaci.
Watts è uno di quelli che ci hanno insegnato come l’idea che abbiamo di noi stessi, quali esseri separati dal resto della realtà non sia altro che un’illusione. Può sembrare un’idea teorica, ma in realtà è molto fondata sull’esperienza diretta, come ben sa chi pratica la meditazione, ma anche sulle scoperte scientifiche da Einstein in poi, in particolare con la fisica quantistica. Il Buddha stesso insegnava, nel V secolo a.C., che “tutto ciò che siamo è generato dalla mente” e oggi molti scienziati e filosofi la pensano più o meno così, grazie anche alla spinta data da Watts stesso, per il quale “la sensazione prevalente del sé quale ego racchiuso in un contenitore di pelle è un’allucinazione, che non si accorda né con la scienza occidentale, né con le religioni-filosofie sperimentali dell’Est”.
Se dunque l’illusoria idea che abbiamo del mondo, come qualcosa che esiste al di fuori della nostra mente e del nostro corpo, guida tutta la nostra esistenza, che male c’è a innamorarsi di un computer, come fa il simpatico Theodore in “Lei”? La realtà virtuale che giorno per giorno stiamo costruendo grazie a Google, Facebook e ai nostri onnipresenti dispositivi digitali, è meno reale dell’idea che ci siamo fatti del mondo?
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