Diana Petech – L’arte di accordare il sitar

accordare il sitar

Quella di accordare il sitar è una metafora per indicare la via di mezzo insegnata dal Buddha, che l’insegnante di meditazione Diana Petech prende a spunto per sottolineare la centralità dell’equilibrio nella pratica di meditazione.

Caro Thây, caro Sangha, buongiorno.

Il titolo di questo finesettimana di pratica, L’arte di accordare il sitar, è tratto dal “Sutra di Sona” che sentiremo domattina.[1] Su questo sutra e su questo tema hanno praticato nelle settimane passate i tre Sangha che facilitano questo finesettimana di pratica – Barzanò, Lecco e Arese – dunque ciò che vi dirò raccoglie anche le intuizioni profonde che sono uscite nelle condivisioni.

Pubblicità (registrati per non vederla più)

Nel Sutra di Sona, il Buddha si rivolge a un monaco affaticato da una pratica troppo intensa; lo invita a ricordare il suo passato di musicista e che cosa succedeva accordando lo strumento a corde che suonava. Se si tira troppo, una corda suona male o si spezza; se la si tira troppo poco è lenta e non al giusto diapason; solo tirandola nella misura giusta può offrire una bella musica. “Allo stesso modo, Sona, l’applicazione eccessiva nella pratica conduce all’agitazione, l’applicazione troppo rilassata conduce alla pigrizia. Così dovresti determinare il giusto diapason per la tua pratica, accordarla al diapason delle cinque facoltà e là cogliere la tua melodia.” Trovate l’episodio nel libro di Thây Vita di Siddhartha il Buddha[2] con qualche variante dovuta al fatto che Thây attinge anche ad altri sutra e li mette insieme.

Per capire la centralità di questo argomento dell’equilibrio nella pratica dobbiamo partire da un dato biografico del Buddha: prima di raggiungere il Risveglio aveva praticato un’ascesi intensiva, com’era uso presso gli asceti del suo tempo, mangiando sempre meno fino a quasi morirne, e aveva scoperto che, per arrivare a scoprire il modo di superare la sofferenza, quella non era una via praticabile: mente e corpo avevano bisogno di energia per riuscirci.

Da questa constatazione era nato il suo insegnamento che ha preso il nome di “Via mediana”. Preferisco questa definizione a “Via di mezzo”, che mi pare più equivocabile.

Sappiamo tutti che ogni elemento della nostra vita è nocivo se troppo o troppo poco: cibo, lavoro, sonno… Oggi ci occupiamo dell’ambito del fare, così critico per tutta la cultura occidentale. Ecco un’osservazione del sangha:

La nostra cultura ed educazione valorizza lo sforzo, anche estremo, per il conseguimento di un risultato, anche a scapito della salute più generale, o del benessere nostro o degli altri. Un po’ come dire che è considerato un bene focalizzarsi su un obiettivo e a quello si sacrificare tutto il resto.

Certo, si può far ruotare tutta la propria vita intorno a un’aspirazione forte. Lo sanno bene certi medici, musicisti, atleti. Se non si coltiva deliberatamente l’equilibrio in una vita del genere, “la corda si spezza”. Vero: a scapito della salute più generale, o del benessere nostro, o degli altri – direi e degli altri. È un tipo di vita che richiede molto alle persone che si hanno intorno, che passano sempre in secondo piano davanti alle esigenze del protagonista. E chi la fa corre il rischio di forti squilibri interiori – complessi di onnipotenza o depressioni gravi, sviluppo della violenza, droghe (doping) – pensiamo a grandissimi atleti come Tyson, Pistorius, Armstrong, a quella campionessa di pattinaggio che aveva accoltellato la rivale alla schiena… Uno sforzo estremo occorre che sia temporaneo, e comunque bilanciato da un equilibrio personale non da poco.

Un’altra osservazione del Sangha:

Ho notato che siamo portati ad estremizzare, quando parliamo della forza di volontà o volizione e del lasciar andare, che tendiamo a contrapporli: o solo propositi saggi e buona volontà, o solo lasciar andare.

È proprio della nostra cultura: l’Occidente tenda a ragionare sempre in termini di contrapposizione, o/o; dall’Oriente impariamo l’e/e.

Ogni nostra azione è mossa da una spinta motivante, ed è di questo che parleremo oggi: delle motivazioni che ci muovono.

Chiedersi che cosa sta a monte di ogni “sforzo” che facciamo. Possono essere abitudini, idee preconcette, ambizioni.

È vero, ed è su questa necessità di chiarezza che si basa l’insegnamento sulle “cinque preoccupazioni mondane”: fama, denaro, sesso, cibo in eccesso, sonno in eccesso. Sono cose di per sé neutre, il male sta squilibrio di troppo o troppo poco, come ci insegna anche la medicina tradizionale cinese.

Nella pratica: un troppo, un eccesso di pratica come quello a cui si riferisce il Buddha può verificarsi in un contesto monastico; mi pare difficile che capiti al laico, che per definizione è esposto al compromesso, avendo responsabilità relative a famiglia, figli, produzione del reddito, genitori anziani ecc. Frequentare di tanto in tanto un ritiro o un Centro di Pratica ha proprio la funzione di offrire un contesto in cui finalmente la nostra pratica è primaria, al centro della nostra giornata, e le si può dedicare tutta la nostra energia, si può andare più a fondo, allenarsi intensivamente. Per un monaco è quella la scelta di vita.

VOLIZIONE e ASPIRAZIONE

La via spirituale è una via di trasformazione interiore. È bene avere chiaro se stiamo cercando solo un po’ di rilassamento, oppure se siamo alla ricerca di strumenti per liberarci dalla sofferenza – o meglio da dukkha, la “frizione” nella vita, l’insoddisfazione, il disagio esistenziale. Nella via del Buddha non c’è una liberazione che viene da fuori: la trasformazione è frutto di un lavoro su se stessi – il praticante è “in autogestione”, si prende la responsabilità di se stesso; ecco perché è così centrale la questione della volizione e dell’aspirazione. Nel Buddhadharma compare in varie forme; vediamone alcune.

  1. Nel Nobile Ottuplice Sentiero è il ramo della “retta diligenza”.
  2. fra le Pāramitā, le “perfezioni” che si coltivano è viryā, l’energia
  3. Nei Quattro Nutrimenti è il 3°, la volizione
  4. Nei Cinque Fattori di Risveglio combina insieme il 2° e il 3°, viryā (energia) e agio (prashrābdhi)

Vediamoli uno per uno.

1) Thây non usa più da tempo il termine retto sforzo: si è reso conto che in Occidente è un termine “malato”[3] che in molti genera avversione o ansia. L’ha sostituito con “diligenza”, che evoca più l’applicazione.

E infatti ecco una frase fra quelle che mi sono arrivate dal sangha:

Se penso al retto s-forzo mi viene una sensazione di oppressione e di scarso benessere.

S-forzo facilmente evoca una cattiva applicazione della forza. Ci viene in mente un concetto ottocentesco di eroismo, Vittorio Alfieri che si lega alla sedia per portare avanti gli studi classici, “volli, sempre volli, fortissimamente volli”… Anche il termine “volontà” rischia di ammalarsi per contagio, visto che si accompagna a sforzo. Eppure la volontà è una funzione umana così bella, così degna e ampia e che determina la libertà dell’essere umano. Il grande psicologo Assagioli, fondatore della psicosintesi e conoscitore del Buddhadharma, ci ha scritto sopra un libro, L’atto di volontà,[4] e parla della compresenza dei suoi tre aspetti sani: la volontà forte (dotata di energia), sapiente (che discerne) e buona (etica dell’obiettivo a cui viene applicata).

2) Viryā pāramitā: non è difficile rintracciare la comune radice indoeuropea della parola sanscrita: in greco ἵs (forza vitale), in latino vis (forza), da cui vir (uomo) e poi virtus (la “forza nobile”, la migliore qualità del vir). Per noi oggi è un po’ malato anche il termine “forza”: per esempio “ottenere con la forza” significa “con violenza”… qui invece stiamo parlando di energia, di slancio vitale, di vitalità.

Come per l’energia fisica, anche l’energia della volizione richiede un allenamento dell’intero sistema “mente-cuore”. Solo con l’allenamento, con la ripetizione, la sua applicazione può accompagnarsi all’agio e portare a una vera e propria trasformazione. [5]

Le neuroscienze di oggi ce lo confermano. La scoperta della neuroplasticità – ossia della capacità del cervello di riconfigurarsi in conseguenza alla ripetizione di un atto – ha dimostrato scientificamente quello che era noto da millenni: i risultati in una via di trasformazione (anche l’acquisizione di capacità è una trasformazione) si hanno con la ripetizione. Chiunque abbia studiato musica o una lingua straniera o chirurgia o qualunque arte sa che è così.

Se non è nutrita da una volizione e aspirazione solida, la ripetizione può generare noia, meccanicità. Thây ha tenuto un discorso magnifico sulla costanza nella pratica e insieme sul rischio di cadere nell’automatismo, nell’abitudine e nella noia.[6] Ci invita a risvegliare in noi le doti di tenace aspirazione del monaco, le doti di fermezza ed energia del guerriero, le doti di creatività dell’artista; e lo scopo è proprio l’equilibrio nella pratica: “Monaco, guerriero e artista non sono tre persone separate ma sono tre aspetti della stessa persona. Per trovare un equilibrio dovreste permettere a tutti e tre questi aspetti di essere presenti e di agire contemporaneamente, in voi.”

3) La ripetizione, dunque la diligenza, è nutrita dalla volizione, il 3° dei Quattro Nutrimenti. Thây spiega bene in che senso la volizione è un nutrimento: “Il nostro desiderio più profondo è la base di tutto ciò che facciamo, compresa la carriera professionale, ed è una forma di energia”. Fa l’esempio di un medico che ha la forte aspirazione a guarire la gente: quella aspirazione nutre in lui l’energia per sostenere tanti esami, poi i tirocini, le guardie mediche, i turni in Pronto Soccorso, prima di avviare un’attività più stabile di medico che lo soddisfa e gli fa dimenticare tutte le fatiche fatte.[7] Del resto lo sa bene ogni genitore: l’energia per affrontare la gravidanza, i dolori del parto e poi le notti insonni, i pianti, le ansie è nutrita dall’aspirazione e dall’intenzione (dunque dalla volizione) di mettere al mondo e far crescere un bimbo sereno, felice e sano; poi basta vederlo giocare felice in un prato per dimenticarsi tutta la fatica.

La volizione è dunque “il desiderio più profondo che muove i nostri passi, la direzione che vogliamo dare alla nostra vita” [8] ed è un nutrimento che si basa sull’aspirazione. Identificare la nostra aspirazione ci serve in particolare per prenderne energia nei momenti difficili. Un esempio personale: proprio di recente in una situazione di controversia mi è stato utile fare un passo indietro, guardare la situazione nel suo insieme e chiedermi: “Qual è il risultato che voglio ‘portare a casa’? Spuntarla, avere ragione, oppure un risultato coerente con la mia aspirazione all’armonia?” Questa domanda mi aiuta a mettere l’altro in condizione di poter collaborare con la mia ricerca di armonia.

Come ogni altra cosa anche l’aspirazione è impermanente, e si modifica nel tempo; bisogna tenerlo presente. Un’amica del sangha di Lecco ha condiviso:

Per me l’aspirazione è bene che abbia mete “a breve termine”; non possiamo sapere che persona saremo nel corso del tempo; fra qualche anno saremo un’altra persona e anche il desiderio più profondo potrà essere un altro. Non porsi mete troppo lontane o ambiziose.

Verissimo. Fra l’altro lo scopo da raggiungere, per la mia esperienza, è “scivoloso” per natura, si sposta man mano che lo raggiungiamo. (J)  Nel mio passato di musicista naturalmente avevo alcuni obiettivi, alcune aspirazioni – suonare per una data istituzione concertistica, incidere dischi, avere una buona critica, partecipare a concorsi internazionali, eccetera. Via via che ne raggiungevo uno, per qualche ragione quello si squalificava ai miei occhi, non valeva più così tanto, si banalizzava; ce n’era subito un altro più importante. È stata una grande lezione. Ho imparato quanto sia importante prendere consapevolezza di quello che realizziamo, di riconoscere i passi che abbiamo fatto fin qui. Anche nella pratica: quante volte guardiamo avanti verso aspirazioni lontane e non ci voltiamo a guardare la strada che abbiamo fatto fin qui! Anche questo è un nutrimento.

Rinnovare l’aspirazione, di tanto in tanto, in base al punto in cui siamo al momento: è un bisogno che si verifica in particolare nei momenti di crisi, anche in senso fertile, di cambiamento; sapete, quei momenti in cui ci fermiamo, ci guardiamo intorno e sentiamo il bisogno di fare il punto: “A che punto sono? In che direzione voglio andare?” Magari ci accorgiamo che non ci interessa più tanto una cosa che in passato desideravamo moltissimo, che il nostro desiderio più profondo è cambiato. Magari in parte è stato raggiunto ed ha aperto una porta, ha fatto maturare un’altra aspirazione più sottile che non conoscevamo. Questo è un meraviglioso rinnovamento della nostra pratica. È rispondere all’invito di Thây a essere artisti nella pratica, a non cadere nella ripetizione e nella noia.

4°) Tra i “Fattori di illuminazione” (o di risveglio) ce ne sono due che corrispondono a quello che stiamo approfondendo oggi, il 2° e il 3°, rispettivamente l’energia e l’agio.[9] Sentite un’intuizione venuta dal Sangha:

Come si fa a riconoscere se lo sforzo profuso è quello corretto? Una delle possibilità è la gioia, perché se lo sforzo è nella giusta misura si sperimenta un agio, una familiarità.

Qualcuno ha intuito anche la relazione che lega i due fattori:

Il Retto Sforzo genera un movimento circolare: il Retto Sforzo produce equilibrio ed armonia e l’equilibrio e l’armonia ci incoraggiano ad andare avanti con il Retto Sforzo.

Come dire: l’energia genera agio e l’agio favorisce l’energia.

NULLA DA RAGGIUNGERE –  E ALLORA?

C’è un’illusione che nasce da un insegnamento un po’ mal compreso: che “la via si faccia da sé” – che siamo già esseri risvegliati, basta scoprirlo. E allora che bisogno ci sarebbe di una volizione come nutrimento alla pratica? È quell’illusione ha vissuto una generazione intera, negli anni ’60, di occidentali che sono andati in India: l’illusione che per raggiungere il risveglio bastasse esporsi a un certo tipo di ambiente, di contesto, di Maestro. (Poi presto ci si rendeva conto che invece si trattava di rimboccarsi le maniche in prima persona… e la maggioranza prendeva la via del ritorno.)

Anche fra i praticanti a volte c’è un po’ di confusione su questo, e a proposito della volizione si sente obiettare che “non c’è niente da raggiungere”, “nulla da cercare”[10] , siamo già perfetti così… dunque perché impegnarsi?

Nel Buddhismo si sono sviluppate tutte e due le visioni, quella che dice “il risveglio si raggiunge seguendo un certo percorso, praticando la consapevolezza, la concentrazione e la visione profonda in questo e quest’altro modo” – insomma che indica un percorso, un metodo; e la visione che dice “il risveglio si raggiunge all’improvviso quando ci cade dagli occhi il velo che ci deforma la visione della realtà ed entriamo in contatto diretto con l’essenza delle cose”. Al solito noi occidentali siamo sconcertati dagli e/e. Ma ci sembra che si chiarisca tutto se mettiamo questi due insegnamenti in successione storica. La prima, la Via del risveglio graduale, è quella più antica, il metodo del Buddha storico, che ha enunciato nel primo discorso di Dharma e poi sviluppato per tutta la vita, e che è esposto nei sutra del Canone Pali, il più antico. Poi poco a poco, secolo dopo secolo, ci si è resi conto che si stava scivolando verso una concezione meccanicistica: fai questo, poi fai quello e quell’altro e diventerai un illuminato – tipo manuale per montare la lavatrice, insomma. Per correggere questo meccanicismo si è formata e ha preso piede la visione della natura risvegliata intrinseca in ognuno di noi – ecco il Sutra del Diamante, il Sutra del Loto. È il tempo in cui si sviluppa il Mahāyāna. E da questo lo zen, con i suoi Maestri che provocano il Risveglio nel discepolo semplicemente con un grido, o un koan, con qualcosa che gli spiazza la mente razionale… la Via del risveglio improvviso.

Ecco l’illusione. Ci vuole ben altro: non è che al discepolo per illuminarsi basta trovarsi un Maestro che gli cacci un urlo o gli tiri una bastonata. Quanti anni di costanza nella pratica, di meditazione seduta ci sono dietro, a preparare il terreno per un risveglio improvviso? Quanta volizione, aspirazione e costanza c’è dietro? Ricordiamo che in alcuni monasteri zen l’aspirante doveva aspettare fuori dai cancelli per tre giorni e tre notti prima di essere ammesso a entrare, per dimostrare la sua determinazione…

Thây è nella tradizione Zen, dunque nella corrente Mahāyāna, e ci parla spesso della nostra innata natura risvegliata; ma coltiva molto anche la Via del risveglio graduale, basta vedere l’importanza che dà alla consapevolezza del respiro e alla pratica della consapevolezza applicata in ogni aspetto della vita…La caratteristica di Thây è proprio questa sintesi fra le due visioni, e questa capacità di insegnare con gli strumenti di entrambe le Vie, quella graduale e quella improvvisa.

DUE CERVELLI

La volizione dunque è un’energia come un’altra, e la gestione di ogni energia richiede equilibrio. Per ognuno questo significa una cosa diversa e specifica. [Alla ricerca di questo equilibrio è dedicato il Laboratorio di domattina.]

Che cos’è che mette in contraddizione le nostre azioni con la nostra aspirazione più profonda? Lo spiega bene la psicologia evoluzionistica. Il cervello umano ha sviluppato prima una serie di funzioni elementari, che condivide con il resto degli esseri viventi, che mirano alla sopravvivenza e alla riproduzione: i meccanismi di autoconservazione (“fuggi o combatti”), di territorialità, di competitività per il cibo e per l’accoppiamento, di ricerca di approvazione dei propri simili per necessità di socialità e sopravvivenza… Lo si chiama cervello antico. In seguito nello sviluppo dell’essere umano si sono andate formando e affinando altre parti del cervello, sostanzialmente nella corteccia cerebrale, il cosiddetto cervello recente, con altre funzioni: la capacità di elaborare pensieri e sistemi di pensiero, anche per astrazioni, di immaginare, di ricordare o anticipare (dunque i concetti di passato e futuro), di pianificare, includere ipotesi nuove, ampliarsi… Non sempre i due cervello sono armonici, a volte entrano in contraddizione fra loro. E spesso il cervello antico, attivo e veloce, “brucia sul tempo” il nuovo – il tipico esempio è tutto ciò che facciamo d’impulso per poi chiederci “ma perché l’ho fatto”? È per questo che siamo così incasinati, noi umani. Ecco una delle funzioni della pratica, di questa ricerca di equilibrio: armonizzare meglio le nostre diverse parti.

Ascoltiamo insieme un suono di campana.

Equilibrio significa riportare al centro sia il troppo che il troppo poco.

Una amica del sangha ha osservato:

Quando mi sono fatta prendere dall’entusiasmo per la pratica e mi ci sono buttata a capofitto, (per esempio dopo aver ricevuto i 5 Addestramenti) pretendendo da me la consapevolezza integrale 24 ore al giorno, poi mi si è scatenata una reazione in direzione opposta e allora per un po’ ho proprio lasciato perdere. Meglio andare piano…

Verissimo. Mettersi “l’asticella troppo alta”, ossia porsi mete irraggiungibili per noi, in quel momento, è una garanzia di abbandono. Ogni cosa a suo tempo. E a suo luogo, lo dice anche Thây: “Fare uno sforzo nel momento sbagliato o nel posto sbagliato dissipa la nostra energia.”[11] Quindi esprimendo la nostra aspirazione mettiamoci un po’ di lucidità: mete concrete, raggiungibili, passo per passo. Non “voglio raggiungere l’illuminazione” – “voglio trascendere nascita e morte” – “voglio diventare un Buddha” ma… ecco, un bell’esempio la gatha del mattino, avete presente?

“Svegliandomi stamattina sorrido. Ho davanti a me 24 ore nuove di zecca. Faccio voto di vivere pienamente ogni momento e di guardare tutti gli esseri con gli occhi della compassione.

Già un bel programma, vero? Oppure, mettiamo, “faccio voto di ridurre la mia tendenza a voler avere sempre ragione” o “di migliorare la mia relazione con il denaro” o “con il cibo”, o “di coltivare il sorriso quando mi rivolgo a quella persona”…

AUTO-BOICOTTAGGI

Senza accorgercene mettiamo in atto alcuni auto-boicottaggi: una parte di noi ha paura di cambiare, dunque si mette di traverso”. Uno di questi, molto comune, è la frase “È difficile”.

Certo che è difficile. Stare al mondo è difficile: essere una madre, un padre, è difficile; essere un buon insegnante, un neurochirurgo, un musicista, è difficile. Qualunque cosa non sappiamo ancora fare è difficile. Poi diventa facile. Dirsi di continuo “eh, ma è difficile” è un buon sistema per lasciar perdere. Acutamente, un amico nel sangha ha osservato:

Le difficoltà sulla Via fanno parte della Via, non sono ostacoli da eliminare di forza oppure ai quali arrendersi. Gli ostacoli SONO la Via.

Un altro autoboicottaggio è rimandare: “Sì, ma in un altro momento, adesso non ho voglia”. Ecco le due parti di noi in contraddizione: una ha scelto liberamente un’aspirazione, l’altra mette la condizione “a patto di averne voglia”. Le condizioni perfette, chissà com’è, sono rarissime. Lo sappiamo bene: il nostro umore e il nostro livello di energia sono fluttuanti, dipendono dagli eventi della giornata, dal quadro ormonale del momento, dalla digestione, dal tempo atmosferico…

Più si avanza nella pratica, più si è stabili. Mi è arrivata un’osservazione dal sangha:

La retta diligenza supera il “mi piace/non mi piace” andando oltre, in uno spazio più vasto del nostro personale orizzonte, meno imbrigliato, meno sofferto, con meno attrito.

Splendido: “meno attrito” – è proprio questo il significato di dukkha, l’attrito che fa il mozzo di una ruota con l’asse del carro quando non è più perfettamente tondo – ossia il nostro attrito con l’esistenza… È questa l’aspirazione: a liberarsi anche dal condizionamento di noi stessi.

È un autoboicottaggio quando ci diciamo “Sì, ma in un altro periodo, ora non ci sono le condizioni per praticare.” Questa tradizione ci offre così tante pratiche con cui nutrirci e trasformarci… Sappiamo bene che possiamo usare quelle più adatte alle circostanze, alle condizioni. Thây ha detto: “In una situazione difficile certo che hai diritto di soffrire, ma in quanto praticante non hai diritto a non praticare”. Come si diceva prima, si impara a usare gli ostacoli, è così che la situazione diventa la Via. Basta un po’ di creatività. Ricordiamo il 2° Addestramento: Sono consapevole che la mia felicità non dipende da condizioni esterne”…. Ecco la scelta adulta: agire costantemente in coerenza con la mia aspirazione, in ogni condizione. È chiaro che è meglio allenarci con le piccole cose, gradualmente – è più facile allenarsi a “stare con quello che c’è” con la lavatrice che perde o con un raffreddore, prima che con una diagnosi di cancro. Ma le condizioni sono quelle che sono, ed è con queste condizioni che ci possiamo chiedere, con creatività: “che cosa mi insegna?” “Che cosa posso fare per me stessa in direzione della mia aspirazione?” Ecco la pratica di visione profonda.

Un altro boicottaggio è dato dal meccanismo ubbidienza/ribellione. Praticare è una scelta (una volizione, a partire da una aspirazione). Se siamo qui siamo consapevoli che è per una scelta personale, vero? A volte però fatichiamo a stare con le nostre stesse scelte. Un esempio: ricorderò sempre una praticante che in un ritiro ha detto, in condivisione, a proposito del Nobile Silenzio: “Volevo [non ricordo più cosa] ma hanno detto che devo stare zitta…” Hanno detto? Quell’amica aveva deciso di partecipare a questo specifico ritiro zen (sapendo di che cosa si trattava), si era organizzata a livello familiare e professionale, si era iscritta, aveva percorso centinaia di chilometri per arrivare, speso denaro, partecipato a una scelta sul numero di giorni in Nobile Silenzio (il Maestro aveva sottoposto ai partecipanti due alternative di durata) – dunque aveva scelto e scelto e ri-scelto e poi … hanno detto che devo stare zitta…

L’adulto sceglie. La volizione è una funzione dell’adulto. Se invece pensiamo di dover “ubbidire” ci mettiamo di fronte al bivio fra sottomissione e ribellione – chi di noi ha figli sa bene di che cosa parlo. Una dinamica un po’ infantile, che scarica su un altro-da-sé la nostra stessa scelta, aprendoci la possibilità di ribellarci. Questo “altro” è il Maestro o anche la mia stessa volizione: il mio “cervello recente” che formula un’aspirazione e coltiva la relativa volizione. E così succede che una parte di me sceglie e poi un’altra parte si chiama fuori dalla scelta, trattandola come un comando a cui ubbidire o ribellarsi. Ecco perché è tanto importante il processo di armonizzare le nostre parti. Già il fatto di riconoscerle mi aiuta a farlo.

Un altro auto-boicottaggio è scambiare “lasciar andare” con “lasciar perdere”. Ho notato che è una confusione frequente. Lasciar andare è riferito a un attaccamento, a un’idea preconcetta, a una formazione mentale che ci fa da ostacolo: è un sciogliere un giogo, un mollare la presa che ci fa volare, più leggeri. Lasciar perdere è una resa alla nostra pigrizia, è scarsa energia, torpore, scarsa convinzione. Ma chimm’oo fa fa’, si dice a Roma: ma chi me lo fa fare. Niente di male, di per sé, basta riconoscere che il nostro era solo un vago desiderio, non “la nostra più grande aspirazione”: basta prenderne atto, essere sinceri. Percorrere la Via non è obbligatorio: ci sarebbe piaciuto ma non siamo disposti a mettere in campo l’energia necessaria e sufficiente, tutto qui. Potrebbe anche esserci qualcosa d’altro che sotto sotto ci attira di più e che non abbiamo ancora riconosciuto.

Chiudo con una bellissima definizione arrivata dal sangha:

Equilibrio e armonia nella pratica, o retto sforzo, mi richiamano l’idea di un’energia efficace, ben calibrata, adeguata allo scopo

Non saprei dire meglio: un’energia efficace, ben calibrata, adeguata allo scopo. Che mi muove ad agire in armonia con la mia più alta aspirazione, anche se forse l’impulso del momento sarebbe altro. Questa è una scelta adulta. Questa è espressione di vera libertà, di piena fioritura dell’essere umano.

Grazie per l’ascolto.

Note

[1] Anguttara Nikaya 6,55.

[2] capitolo 71.

[3] “Ci sono parole che sono malate, che hanno assunto sfumature o significati diversi da quelli originari, sta a noi guarirle”.

[4] Roberto Assagioli, L’atto di volontà, Astrolabio, Roma 1973.

[5] Sutra: v. Bhavanasutta, Anguttara Nikaya VII.67. In Assagioli: “La ripetizione degli atti intensifica la tendenza a compierli e rende più facile e migliore la loro esecuzione, fino a poterli compiere inconsciamente.”

[6] Plum Village 28.1.2007.

[7] Savor, capitolo 3.

[8] V. in Il cuore dell’insegnamento del Buddha pag. 222.

[9] viryā e prashrābdhi.

[10] È il titolo di un libro recente di Thay sul libro del Patriarca zen Lin Chi.

[11] Il cuore dell’insegnamento del Buddha, p. 222.

Diana Petech, L’arte di accordare il sitar (pdf)

[La foto iniziale è di Andrew Fogg]

You need to login or register to bookmark/favorite this content.

Pubblicità (registrati per non vederla più)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *