
Liberarsi dalla reattività è il metodo per liberarsi anche dalla sofferenza, secondo gli insegnamenti del Buddha. Stephen Batchelor ci offre qui una sua interpretazione della “seconda nobile verità”.
Siamo esseri che reagiscono quando entrano in contatto con il mondo attraverso i sensi. Se ciò che incontriamo è piacevole, reagiamo con attrazione; se è spiacevole, reagiamo con avversione; se non è né piacevole né spiacevole, reagiamo con irrequietezza o noia. A queste reazioni possiamo aggiungere senso di colpa, insicurezza, vanità, senso di inadeguatezza, ansia, presunzione, paranoia, aspettativa, desideri irrealizzabili, e così via. Tali reazioni sono interamente naturali. Non sono né buone né cattive. In senso stretto, non sono neppure ‘nostre’. Sono semplicemente ciò che accade quando un organismo interagisce con il suo ambiente. Sono ciò che sorge.
Il secondo aspetto del quadruplice compito è lasciare andare ciò che sorge. Questo può sembrare contraddittorio. Se ciò che sorge come una reazione al mondo è soltanto un’altra caratteristica naturale del mondo, ricade sicuramente nell’ambito del primo aspetto del quadruplice compito ed è quindi qualcos’altro che va compreso e abbracciato. Com’è possibile, si potrebbe ragionevolmente chiedere, allo stesso tempo abbracciare e lasciar andare una reazione? Un’altra strofa dal Dhammapada fornisce un indizio:
Il saggio si muove per il villaggio
Come l’ape raccoglie il polline
E vola via senza far danno
Al fiore, al suo colore o alla sua fragranza.
Il saggio acquisisce quanto è necessario per sopravvivere, tuttavia lo fa con una leggerezza che non si lascia dietro una scia di distruzione. La persona che lascia andare la reattività non evita il coinvolgimento con il mondo, ma si muove in esso con leggerezza e agilità.
La parola che traduco come ‘reattività’ è taṇhā, che letteralmente significa ‘sete’ o ‘brama’. Questa è la definizione di taṇhā ne I quattro compiti:
Questo è il sorgere (samudaya): esso è brama (taṇhā), che è ripetitiva, si crogiola nell’attaccamento e nell’avidità, indulge ossessivamente in questo e in quello: bramando stimoli, bramando esistenza, bramando non esistenza. (*)
Taṇhā è un concetto complesso quanto dukkha. Proprio come ‘sofferenza’ non rende pienamente il senso di dukkha, così ‘brama’ non esprime pienamente il significato di taṇhā. Se intendiamo dukkha come ‘vita’, possiamo interpretare taṇhā come le innumerevoli reazioni che la vita provoca in noi. In entrambi i casi, i termini mettono in luce un tratto centrale di ciò che denotano (il tragico nel caso di dukkha; il desiderio in quello di taṇhā), ma quel tratto non è sufficiente a catturare l’intero spettro di ciò che si intende con essi.
Taṇhā, come elemento all’interno della classica dottrina dei dodici anelli di condizionalità, è ciò che sorge in reazione alle sensazioni provenienti dal contatto sensoriale di un essere cosciente con il mondo differenziato (nhāmarūpa). Le reazioni includono odio e indifferenza, ripugnanza e noia, quanto brama e desiderio. Inoltre il sorgere di taṇhā non avviene semplicemente come una serie di eventi isolati; è un ciclo che si rinforza da sé. L’essere cosciente ‘si crogiola’ e ‘indulge’ in preoccupazioni, paure, ossessioni e fantasie. In risposta a un assillante senso di mancanza, taṇhā sorregge l’anelito a riempire il vuoto interno con stimoli sempre più intensi. Radicandosi in sensazioni di incompletezza e inadeguatezza esistenziali, gonfia l’io e ne afferma l’importanza nel mondo. E ogni volta che queste strategie non producono risultati, essa sprofonda nell’agognare inebriamento, oblio e persino morte.
Nel descrivere avidità, odio e confusione come fuochi, Gotama è consapevole di come la reattività divampa ogni volta che una scintilla l’accende. Una volta divampata, la persona tende a credere in essa e a indulgervi, alimentando in tal modo le fiamme, In questo modo, la reattività amplifica il dolore inizialmente provato e insieme innesca una proliferazione di pensieri (papañca). Il Buddha paragonò il dolore fisico all’essere colpito da una freccia, un dolore che viene poi inutilmente amplificato da una seconda freccia, fatta di inquietudine e angoscia. In una versione alternativa degli anelli di condizionalità, egli parlò di come le sensazioni di piacere e dolore fanno sorgere percezioni che conducono a pensieri che proliferano senza fine.
Gotama comprese che gli esseri umani passano tantissimo tempo assorbiti nelle amplificazioni e proliferazioni della reattività. Definisce queste reazioni le ‘trappole’ o gli ‘ami da pesca’ di Māra. Una volta che qualcuno sia stato intrappolato o preso all’amo, è difficile, doloroso e inutile lottare per liberarsi, poiché quella lotta è con ogni probabilità un’altra variante della stessa reattività che si vuole combattere. Anzi, la presa della trappola si stringe di più e l’amo si conficca ancora più a fondo nella carne. Le persone non riescono a comprendere perché e come continuano ad essere “ingannate” dalle “forme belle e orribili” che Māra fa apparire. E, non riuscendo a capire, diventano “come matasse aggrovigliate”.
Devo continuamente rammentare a me stesso che il linguaggio dei discorsi non dà per scontata, a differenza dei pensatori buddhisti successivi e di noi moderni, una scissione evidente tra un soggetto che esperisce e un mondo oggettivo. Gotama non analizzò l’esperienza umana in questo modo. A fini pratici (come nei suoi insegnamenti sulla consapevolezza) può distinguere tra oggetti di attenzione ‘interni’ ed ‘esterni’, ma termini come ‘soggetto’ e ‘oggetto’ non compaiono nei discorsi. Non dovremmo pertanto supporre che reattività o aridità siano fenomeni psicologici che si riferiscono soltanto alla nostra vita interiore. A rischio di leggere troppo in un prefisso, mi sia concesso di notare che la parola samudaya (sorgere) potrebbe essere tradotta letteralmente come ‘co-sorgere’, mentre il suo equivalente tibetano kun ‘byung significa letteralmente ‘sorgere totale’. Entrambi i termini suggeriscono che quando sorge uno schema comportamentale reattivo come l’odio, innesca simultaneamente un’emozione di rabbia che attraversa l’organismo e configura il mondo così che si presenti intrinsecamente odioso e pauroso.
Tendiamo a considerare l’apparenza di tale mondo pauroso come una proiezione del nostro stato mentale. Ma questa lettura della situazione si basa su un’abitudine culturale a interpretare l’esperienza dal punto di vista psicologico. Per quanto ci diciamo che l’aspetto pauroso del mondo è solo una proiezione, tale rassicurazione non altera significativamente né il modo in cui il mondo ci appare, né il modo in cui lo percepiamo. Dalla prospettiva del praticante di dharma, il compito di ‘lasciare andare ciò che sorge’ implica allentare la presa sul quadro d’insieme: io-arrabbiato-che-affrontouna-situazione-ostile. Lasciare andare non è semplicemente una questione di respirare profondamente per calmare la mia mente scossa; ho bisogno anche di purificare le porte della mia percezione. Questo richiede sospendere l’abitudine automatica a vedere il mondo come ostile, desiderabile o noioso. Uno dei modi più efficaci di sospendere questa abitudine addestrarsi a comprendere il mondo come un mondo che soffre infinitamente.
C’è una simbiosi tra il ‘comprendere la sofferenza/vita’ e il ‘lasciare andare la reattività’. Il quadruplice compito comporta il coltivare un abbraccio che è al contempo un lasciar andare. Questa azione è simile a una danza dove ogni partner tiene l’altro in modo che entrambi possano muoversi con la massima libertà e grazia. Più comprendiamo a fondo la situazione precaria e misteriosa in cui ci troviamo, più la nostra reattività egocentrica si affievolirà da sola o ci apparirà sempre più meschina e assurda, E più smettiamo di credere a quello che i nostri abiti mentali compulsivi continuano a dirci, più il mondo tenderà a rivelarsi in tutta la sua intensità, tragedia e sublimità.
Lasciar andare la reattività è una conseguenza del comprendere la reattività stessa. In molti dialoghi con Māra, il Buddha conclude dicendo “Ti conosco, Māra”, e a quel punto Māra svanisce. Con tale comprensione (paragonata qui esplicitamente al conoscere una persona) il praticante vede i sotterfugi della reattività per quello che sono: il gioco seduttivo e infantile di un organismo che è primariamente (ed in gran parte esageratamente) preoccupato della sua sopravvivenza biologica. In un dialogo, Māra dichiara al Buddha: “La vita è lunga; vivi come un poppante! ” Gotama ribatte: “La vita è breve; vivi come se avessi la testa in fiamme! “. Questo passaggio mette in evidenza come la reattività sia un comportamento istintivo destinato a persistere finché abitiamo il corpo in cui siamo nati. Per liberarsi dalla presa di questo comportamento occorre giungere a una comprensione matura della propria mortalità, di come ogni fragile momento dipenda dal pompare di un muscolo e dal fare un respiro.
* Tratto dal Cakkappavattana Sutta.
Da: Stephen Batchelor, “Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica“, Astrolabio Ubaldini, 2018.
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Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica

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