
Il Buddha ha insegnato a contare su se stessi e al tempo stesso a prendere rifugio nel Dharma. Sembra una contraddizione, ma Stephen Batchelor coi spiega perché non lo è affatto.
Contare su se stessi: perché è importante
“Perciò, Ānanda, dovreste vivere come isole per voi stessi, essere il vostro rifugio, senza altro rifugio, con il dharma come un’isola, con il dharma come vostro rifugio, senza altro rifugio”. Questo celebre ultimo testamento è succinto, ma il suo significato è complesso. Sembra che comporti una contraddizione: dopo aver dichiarato che noi stessi siamo l’unico nostro rifugio, Gotama afferma che il dharma è il nostro unico rifugio. Come può una persona avere due rifugi unici? Il senso del passo si chiarisce quando si risolve questo enigma.
Da parte mia, intendo questa affermazione come la parola finale del Buddha sul fare affidamento su se stessi, che è il tratto fondamentale che distingue il suo dharma da quello di altre dottrine contemporanee. Il fare affidamento su se stessi sostenuto da Gotama non ha nulla a che vedere con un ingenuo egoismo, o con l’anteporre istintivamente la realizzazione dei propri desideri a tutte le altre considerazioni. La sua insistenza sul sé (atta) sottolinea l’importanza del diventare ‘indipendenti dagli altri’ nel dharma, che è una caratteristica dell’entrare nella corrente. Tale indipendenza non è la semplice libertà di fare quello che si vuole, ma la libertà di condurre una vita all’interno dell’etica del dharma, dove rispondiamo alla nostra e all’altrui sofferenza in un modo che non è condizionato dalla reattività. Gotama incoraggia a vivere una vita attenta e premurosa, fondata sulla responsabilità personale e sull’autonomia piuttosto che su un insieme di regole o precetti da applicare a prescindere dalle circostanze in cui ci troviamo. Il carattere apparentemente doppio del rifugio di cui parla Gotama si risolve in tal modo in un’unità: il rifugio si basa sul dharma che abbiamo integrato nella nostra vita.
Dopo aver esortato all’indipendenza, Gotama pone una domanda retorica: in che modo si continua a vivere come un’isola per noi stessi, con il dharma che abbiamo integrato in noi come unico rifugio? “Ecco, Ānanda” , risponde egli stesso, “un mendicante dimora nella contemplazione del corpo come corpo, chiaramente consapevole, in presenza mentale, avendo abbandonato l’attaccamento al mondo, e la stessa cosa vale per le sensazioni, la mente e le idee”. In altre parole: comprendiamo e abbracciamo la nostra esistenza, scardinando in tal modo la reattività abituale e aprendoci alla visione del nirvāna, quello spazio non reattivo da dove si può rispondere con libertà, in modi che non sono determinati solo dall’egoismo. “E coloro che nel mio tempo o dopo vivranno così”, conclude, “diventeranno le persone più sublimi, se avranno desiderio di imparare .
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Da: Stephen Batchelor, “Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica“, Astrolabio Ubaldini, 2018.
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Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica

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