
Alcuni anni fa fece scalpore un film che sembrava voler scuotere l’assopita coscienza ambientalista. Into the Wild era tratto da un libro e raccontava la storia, vera ed estrema, di Christopher McCandless, un ragazzo che decide di abbandonare gli agi e le comodità e di rinunciare a ogni contatto con la civiltà per rifugiarsi in un pulmino abbandonato in mezzo alla steppa nel grande Nord del continente americano.
La sua decisione era ispirata a un classico della letteratura dell’800, Walden di Henry David Thoreau, un racconto autobiografico sui due anni che lo scrittore trascorse in una capanna in mezzo ai boschi del New England e sulla sua esperienza di profondo contatto con la natura. Dopo questo periodo Thoreau decise di tornare in città e raccontare al mondo ciò che questa esperienza gli aveva insegnato.
Il giovane protagonista del film, invece, muore di stenti. Le sue ultime parole riprendono un passaggio di Tolstoj: «La felicità è reale solo quando condivisa». La pratica buddhista non nasce per portarci in dimensioni ultraterrene ma per risvegliarci alla concretezza dell’esistenza. Tutto ciò che ci allontana da essa, come l’esperienza estrema del ragazzo di Into the Wild, non è risveglio ma alienazione. E Thoreau lo aveva ben compreso.
La pretesa che il silenzio, la meditazione, la contemplazione, abbiano di per sé un valore ed elevino chi li coltiva a uno speciale status dello spirito vuol dire trasformarli in oggetto di culto, portarli a un livello simbolico. Come se, in questi stati di coscienza e solo in questi, si potesse avere accesso a una qualche verità ultraterrena.
Il rischio, senza giungere agli estremi di Christopher McCandless, è quello di prendersi molto sul serio e scollegarsi dalla realtà invece di viverla. L’eccessiva enfasi che in certi ritiri di meditazione viene posta sullo sforzo nel mantenere l’isolamento risponde proprio a una tradizione ascetica che ha come obiettivo quello di trascendere il corpo per avere accesso a una dimensione puramente spirituale, una sorta di “condanna” della fisicità, del nostro stato naturale.
Lo stesso Gotama, dopo la propria crisi esistenziale, vagò per il nord dell’India e si sottopose a ogni genere di pratica ascetica. Dopo sei anni, rimanevano di lui solo le ossa e la pelle. Uno stato di deprivazione ben raffigurato in certe statue che ne ritraggono la figura cadaverica. Un giorno in più e sarebbe morto. Fu allora, racconta la leggenda, che incontrò una giovane contadina, la quale impietosita gli offrì una ciotola di cibo. Nonostante lo sdegno dei suoi compagni di sventura, lui accettò e così comprese che la strada per ritrovare il contatto con la vita non è quella che porta a negarla ma quella che prevede un giusto equilibrio, la famosa via di mezzo, tra decisione e gentilezza, consapevolezza e compassione.
Gli stati meditativi non sono dunque un obiettivo da raggiungere o un ideale da emulare. Come un contadino sa bene quali sono le pratiche da utilizzare perché un campo diventi rigoglioso, allo stesso modo, colui che pratica sa che silenzio, solitudine e meditazione preparano il terreno per entrare in più profonda sintonia con il tempo naturale e con lo spazio e per aprirci al sublime.
Il poeta epicureo latino Lucrezio, a proposito di questa capacità di stupirsi, scrisse:
Pensa anzitutto al terso e luminoso colore del cielo, a quanto in sé raccoglie, alle stelle che errano in ogni sua parte, alla luna e allo straordinario splendore del sole: se tutto questo, ora, apparisse per la prima volta ai mortali, se tanto spettacolo s’offrisse d’improvviso e inatteso allo sguardo, che mai potrebbe dirsi di più prodigioso di questo, o che prima gli uomini meno osassero ritenere possibile?
Nulla, io credo, tanto questa visione apparirebbe stupenda. Eppure chi mai, stanco già di vederle, si degna di levare lo sguardo alle splendide regioni del cielo?
(da: Lucrezio Tito Caro, La natura delle cose, traduzione di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano 2015)
Siamo così abituati al cielo e così poco abituati al silenzio, a stare con noi stessi: è per questo che non riusciamo a vivere in modo libero e autentico.
Una volta che siamo tornati in sintonia con la dimensione naturale, ecco che sorge l’intuizione, l’ispirazione, il risveglio, ovvero ciò che nella lingua giapponese viene definito satori. Il satori è fondamentale per restituire autenticità all’esperienza: perché l’ispirazione rompe gli schemi del pensiero razionale e restituisce autenticità all’agire umano, permettendoci di percepire lo scorrere di un tempo permeabile agli elementi del mondo, che li invita a essere parte di noi. L’ispirazione recupera l’istinto magico della creazione e ci connette con il tempo del sogno, con quella conoscenza dei segreti del mondo naturale che si tramanda dalla notte dei tempi e che non è magia né stregoneria.
L’arte, in ogni sua forma, è l’esempio più alto di questo tipo di ispirazione espressiva, la manifestazione del sublime, del battito del cosmo che ci si svela. Ha un suo tempo e un suo spazio, primordiali, avvolgenti e avulsi dal tempo e dallo spazio di chi ne fruisce.
Questi sono i veicoli che la cultura occidentale offre alla ricerca del tempo primordiale. Ma non solo. Proprio il moderno successo delle discipline meditative svela, in realtà, una nostalgia per una condizione che non ci è affatto aliena, benché gli sforzi per eclissarla siano stati poderosi. Ridurre la cultura occidentale alla pura razionalità è un abbaglio. Il nostro bisogno di tornare alle radici è forse oggi più forte che mai.
Il richiamo della natura muove l’uomo da millenni: esiste tuttora una tribù di aborigeni che attraversa l’Australia seguendo le cosiddette vie dei canti, le “piste del sogno” fatte di sentieri visibili solo ai loro occhi. Non si tratta di astrazione ma di totale immersione nell’energia del mondo, poiché non esiste separazione tra la dimensione che definiremmo “interiore” e quella “esteriore”.
Questa è l’esperienza del sublime che facciamo quando consentiamo a noi stessi di muoverci senza uno scopo.
Quando sono in viaggio, in una città che non conosco, cerco di trovare un po’ di tempo per gironzolare qua e là alla scoperta di angoli nascosti. Mi fermo a guardare un raggio di luce che risplende su una finestra, i panni stesi al sole, i bambini che giocano nei cortili, i locali pieni di persone, e provo a immaginarmi le loro storie, mi invento dei nomi e spesso scrivo questi racconti su un vecchio quadernetto Moleskine che porto sempre con me. Lo stesso mi succede negli aeroporti, quando, tra un volo e l’altro, lascio che il fiume di viaggiatori che mi passa davanti agli occhi stimoli la mia fantasia e sorprenda le mie certezze.
Ecco, quando riusciamo a mettere da parte ogni programma, ogni istinto di controllo, ogni attitudine a finalizzare e parcellizzare, emerge l’incanto, la magia, l’immanenza. Quest’energia, questa forza naturale, diventa il motore della nostra esperienza, un’esperienza non solo del luogo e dello spazio ma anche del tempo come elemento fisico dell’universo. Quest’ultimo, infatti, rallenta, diventa solido, acquisisce un significato perduto. Diviene il tempo del vagare, dello scoprire, del ritornare bambini, della semplicità, della luminosità non oscurata da paure, pregiudizi e schemi mentali. Vagabondando riscopriamo il nostro nomadismo, la naturale non appartenenza a nessun luogo e dimentichiamo il bisogno della proprietà. Non consumiamo l’esperienza ma la interiorizziamo, facendo tesoro di questo tempo arcaico, di un tempo non condizionato dalla nostra proiezione, dalla volontà.
Il filosofo ebreo olandese Spinoza sosteneva che l’uomo ha l’illusione di essere libero perché non riconosce le leggi della natura che lo vincolano. L’assonanza con il pensiero buddhista è molto forte. Il processo della meditazione, infatti, porta esattamente alla riscoperta di questo stato naturale, primordiale e immanente, in cui l’io non trova posto.
Nel ritorno alla natura sta proprio uno dei punti di contatto tra l’esperienza della pratica buddhista e la cultura occidentale. Anzi, potremmo dire che l’insegnamento buddhista può essere letto come un grande studio sul tempo e sullo spazio, una mappa per tornare al punto di origine, allo stato naturale più autentico. Entrare nella corrente per andare controcorrente, come diceva Gotama, significa proprio questo: immergersi nella realtà per creare una vita autentica, per creare la vacuità necessaria affinché l’energia della vita si espliciti e prenda forma.
Purtroppo siamo prestazionali e competitivi, anche quando non ne abbiamo alcun motivo, e l’abitudine a scollegarci con il nostro stato naturale è talmente radicata da farci sentire a disagio quando non la assecondiamo. Dobbiamo perciò riprogrammarci e la pratica serve a questo.
Cercate di trovare, ogni giorno, un momento per una semplice passeggiata nel verde o nella natura. Camminare sulla spiaggia o in una foresta, quando è possibile, è un’ottima occasione per invertire il flusso e intuire, ascoltare il tempo delle piante, degli animali, del mare, delle foreste, delle montagne, delle pianure. Un tempo che pulsa di vita. Il walkabout, l’andare in giro degli aborigeni, sfugge alla dittatura e al determinismo dell’efficienza, alle catene della predeterminazione, all’aridità del conosciuto.
Il tempo urbano, invece, quello della produzione, della competizione, degli individui chiusi per ore in scatole di vetro e cemento, è un tempo arido, senza energia, è il tempo dell’alienazione. Quando Buddha parlava di una condizione di morte parlava esattamente di questa aridità, dell’incapacità di ricongiungersi alla natura autentica e primordiale. Ma il suo desiderio è restituirci alla vita, rinnovare la vecchia città in rovina, riscoperta nella giungla, che usa come metafora per definire il suo insegnamento, riportarla al suo antico splendore.
Il suo augurio è il seguente:
Possano tutti gli esseri essere felici e sicuri; possano le loro menti accontentarsi. Qualunque cosa siano – deboli o forti, alti, robusti, di media altezza, bassi, piccoli o grandi… coloro che nascono e coloro che devono ancora nascere – possano tutti gli esseri, senza eccezione, essere felici! Non illudiamoci e non disprezziamo nessuno in alcun modo. Lasciate andare la rabbia o la mala volontà e non desiderate alcun danno per gli altri. Proprio come una madre proteggerebbe il suo unico bambino anche a rischio della sua stessa vita, così possiate coltivare un cuore sconfinato verso tutti gli esseri. Che i pensieri di amore sconfinato pervadano il mondo intero – sopra, sotto e attraverso – senza alcun ostacolo, senza alcuna inimicizia, senza alcuna rivalità. Che si stia in piedi, si cammini, si stia seduti o sdraiati, finché si è svegli, si dovrebbe mantenere questa consapevolezza. Questo, si dice, è lo stato sublime in questa vita.
(Canone Pali, Sn. 145-152)
Questa è la boa nella tempesta!
Da: Stefano Bettera, “Il Buddha era una persona concreta. Consigli di felicità orientale a uso degli occidentali“, Bompiani, 2019.
Per approfondire:
Il Buddha era una persona concreta. Consigli di felicità orientale a uso degli occidentali

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