Robert Wright – La meditazione di gentilezza amorevole (Mettā) non ci rende più buoni, a meno che…

meditazione di gentilezza amorevole

La meditazione di gentilezza amorevole, o Mettā, viene analizzata in questo brano da Robert Wright con crudo realismo, principalmente dal punto di vista della psicologia evolutiva.

La linea di demarcazione tra «buoni» e «cattivi» spesso non è meno arbitraria di quella che separa le erbacce dalle altre piante.

Esiste una tecnica meditativa specificamente creata per confondere questa linea. Si chiama meditazione della gentilezza amorevole o, per usare l’antico termine pali, meditazione Mettā. Comincia con il tentativo di essere gentili con se stessi. Poi si visualizza una persona amata e si dirige la propria amorevolezza verso di lui o lei. Poi si immagina una persona che ci è simpatica e si indirizza verso di lei tutta la propria gentilezza amorevole. Dopodiché si passa a qualcuno che ci è indifferente. E via così, finché non si giunge a pensare a un nemico. Se tutto procede secondo i piani, si riesce a provare gentilezza amorevole anche verso di lui.

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Mi pare giusto spendere qualche parola positiva a proposito della gentilezza amorevole: su qualcuno funziona. Su di me, no. Credo che i problemi comincino all’inizio, quando dovrei indirizzare la gentilezza amorevole verso me stesso. In ogni caso, sono felice di dire che, per me, la meditazione non Mettā – la semplice meditazione di consapevolezza – ha alcuni degli effetti che dovrebbe avere la meditazione Mettā: riduce l’ostilità e può perfino amplificare l’empatia.

Anzi, durante un ritiro di meditazione, dopo quasi una settimana di meditazione di consapevolezza continua, pensai a uno dei miei peggiori nemici, un mio ex collega (chiamiamolo Larry) dall’atteggiamento, diciamo, ben poco cameratesco. Di solito se vedo Larry o penso a lui, percepisco un’aura negativa – un’essenza-di-Larry, si potrebbe dire. Ma durante il ritiro cominciai a pensare a lui senza quell’aura. Vidi i suoi comportamenti più fastidiosi (o almeno i suoi comportamenti che trovavo più fastidiosi) come manifestazioni di insicurezza. Lo immaginai in modo vivido come l’adolescente allampanato e poco sportivo che doveva essere stato,

lo raffigurai sul terreno da gioco, incapace di suscitare rispetto, mentre cercava di trovare la sua identità, e infine si formava un’identità che, guarda caso, risultava irritante per il sottoscritto. In quel momento avvertii una specie di compassione per lui. Ma non colsi la sua essenza. O almeno, non colsi l’essenza-di-Larry che avevo percepito fino ad allora. E penso che fosse quello il segreto: scomporre la vecchia essenza-di-Larry mi permise di concepire una nuova versione di Larry che corrispondeva maggiormente alla verità.

Si dice che Rumi, il poeta sufi del Tredicesimo secolo, abbia scritto:

«Tuo compito non è cercare l’amore, ma solo cercare e trovare tutte le barriere contro di esso che hai costruito dentro di te». Non è sicuro che sia stato proprio Rumi a scriverlo, ma se l’autore è lui, sicuramente c’è qualcosa di vero nelle sue parole. Sarebbe un’esagerazione affermare che abbattere la barriera che avevo di fronte – in questo caso, l’essenza-di-Larry che la mia mente aveva pazientemente costruito nel corso degli anni – mi aveva portato ad amare Larry. Però, per un attimo avevo parzialmente sperimentato quel tipo di empatia provata da un genitore quando vede il proprio giovane figlio tentare, senza successo, di integrarsi in un gruppo di amici. Naturalmente quella sensazione passò, ma l’effetto rimase: la volta successiva in cui vidi Larry, gli strinsi la mano, lo salutai e, per la prima volta dopo molto tempo, non ebbi l’impressione di comportarmi da ipocrita. O almeno, non lo stavo facendo al 100 %, ma solo al 40 o 50.

Durante lo stesso ritiro di meditazione che mi portò a vedere un’erbaccia priva dell’essenza-dell’erbaccia, ebbi anche un incontro interessante con un rettile. Stavo camminando nel bosco e, quando abbassai lo sguardo, vidi una lucertola ferma immobile, probabilmente spaventata dalla mia presenza. Mentre la osservavo guardarsi attorno nervosa, calcolando la mossa successiva, il mio primo pensiero fu che il comportamento del rettile era governato da un algoritmo relativamente semplice: se vedi una creatura più grande di te, bloccati; se la creatura si avvicina, scappa. Ma poi capii che, anche se i miei algoritmi comportamentali sono molto più complessi, potrebbe esistere una creatura tanto intelligente da considerarmi elementare come io considero la lucertola. Più ci pensavo, più trovavo dei punti in comune tra me e la lucertola.

Entrambi ci eravamo trovati catapultati in un mondo che non avevamo scelto, sotto la guida di algoritmi comportamentali che non avevamo scelto, e cercavamo di gestire al meglio la situazione.

Avvertii una specie di solidarietà con la lucertola, cosa che non mi era mai capitata prima.

Come era avvenuto nei confronti di Larry, il mio senso di solidarietà per la lucertola non richiedeva la meditazione della gentilezza amorevole. La meditazione di consapevolezza, praticata con diligenza, tende a espandere la compassione per gli altri organismi.

E intendo «compassione» non solo nel senso sdolcinato di amore e affetto, ma anche – principalmente – di comprensione. Stavo osservando quella lucertola come avrebbe potuto farlo un visitatore proveniente da Marte: con interesse, curiosità e meno preconcetti di quelli che di solito uso in queste circostanze, capaci di provocare delle distorsioni. Forse il motivo per cui riuscivo a osservare la lucertola con pochi preconcetti era che non vedevo l’essenza-della-lucertola, o almeno non la vedevo tanto come al solito.

Anzi, si potrebbe dire che non vedere l’essenza e non avere preconcetti è la stessa cosa, perché l’essenza che percepiamo nelle cose è un preconcetto su di esse che è stato programmato nel nostro cervello. Questi preconcetti ci inducono a reagire alle cose in modi che sono in un certo senso vantaggiosi, ma non comportano necessariamente un’autentica comprensione di esse.

Quali sono questi vantaggi? Può essere vantaggioso sapere che vostro marito è vostro marito. Non vi suggerisco quindi di disfarvi del vostro senso di essenza come Fred, vittima della sindrome di Capgras, [una malattia psichiatrica caratterizzata dalla ferma convinzione che una o più persone familiari siano state sostituite da estranei a loro identici]. Ma non dovete preoccuparvene. Non conosco meditatori che si siano spinti fino a quel punto, neppure quelli che si sono avvicinati all’illuminazione.

Fred è stato utile a illustrare il legame tra essenza e affetto, ma non è utile nell’illustrare dove porta il dharma.

Però solleva una domanda interessante su dove, appunto, possa condurre il dharma. Anche se non vi porta là dove si trovava Fred – in un punto dove vedete così poca essenza da non riuscire a capire chi siano le persone – è possibile che vi conduca troppo lontano?

Immaginate, per esempio, che, anche se riuscite ancora a identificare correttamente vostro marito come tale, vediate meno essenza-di-marito di quanto faceste prima, e immaginate che i vostri sentimenti cambino di conseguenza. Significa che amate vostro marito meno profondamente, ora? Oppure, per prendere un altro esempio, i genitori che meditano in modo intensivo amano i loro figli meno intensamente? L’idea buddhista secondo cui dovreste abbandonare ogni forma di attaccamento non incoraggia, in un certo senso, un allentamento dell’amore parentale così come lo conosciamo?

Se rivolgete a un qualsiasi insegnante di meditazione una domanda del genere, vi sentirete rispondere che no, la pratica meditativa non nega né soffoca l’amore, ma può cambiarne la natura. Forse, per esempio, l’amore dei genitori sarà meno possessivo. E chissà, forse creerà un genitore e un figlio più felici di quelli che avrebbe prodotto un amore più ansioso e maggiormente caratterizzato da una volontà di controllo.

Ai fini pratici, questa risposta è corretta. Da quanto ne so, la pratica meditativa tende a migliorare le relazioni personali – con famigliari e non – invece di peggiorarle.

Immaginate però che un insegnante di meditazione, a questa domanda sulla prospettiva di un amore meno intenso, dia una risposta meno rassicurante: «Sì, se meditate molto, moltissimo, vi è la possibilità che la grandezza del vostro amore per i figli diminuisca un po’». Sarebbe davvero una catastrofe?

Immaginate un mondo in cui ricchi genitori occidentali rivolgano un po’ meno attenzioni e vizino un po’ meno i figli. E immaginate che dedichino il tempo libero ad aiutare bambini senza genitori. Sarebbe proprio tanto terribile? È fantastico che la selezione naturale ci dia la capacità di provare amore, compassione e altruismo, ma questo non significa che dobbiamo sottometterci alla voce della selezione naturale su come utilizzare quelle preziose risorse.

Voglio sottolineare quanto sia ipotetica questa sostituzione tra attenzione nei confronti dei figli, o, invece, di altre persone, perché di solito si verifica il contrario: le vostre relazioni famigliari di solito risulteranno arricchite se seguirete il dharma, anche se – soprattutto se – lo seguirete a lungo. Però non voglio trascurare un punto importante: da una prospettiva morale, l’effetto della vostra pratica meditativa sulle persone che amate non è necessariamente l’unico punto, o quello centrale.

Esiste una seconda questione morale da considerare: e se la meditazione non vi portasse a distribuire la compassione in modo diverso, e forse più equo, ma vi inducesse, in qualche modo, a prendere le distanze da sentimenti di compassione, lasciandovi indifferenti al benessere altrui? Dopotutto, se la meditazione può svuotare di motivazione sentimenti come l’odio o il risentimento, perché non potrebbe avere un effetto calmante anche su sentimenti che si trovano all’estremità opposta dello spettro?

Potrebbe, e il fatto che tenda a non farlo è fonte di perplessità. Ma «tende a non farlo» non significa che «non lo fa mai», e questo punto va sottolineato: togliere parte dell’essenza alle cose probabilmente vi renderà persone migliori, ma non è detto. Come il percorso meditativo più in generale, ciò può darvi una prospettiva in un certo senso più distaccata, facilitando così l’autocontrollo, ma il mondo è pieno di persone orribili che riescono a fare uso del distacco e dell’autocontrollo. Anzi, queste due qualità contribuiscono a renderle ancora più orribili. Certi bravi insegnanti di meditazione hanno sfruttato sessualmente studenti psicologicamente vulnerabili, compreso un famoso maestro zen di Manhattan diventato tristemente celebre per gli abusi sessuali commessi su diverse donne di cui era guida spirituale. Può darsi anche che alcuni di loro, vedendo «consapevolmente» i propri sensi di colpa, abbiano vinto la resistenza interiore alla propria condotta riprovevole.

Questa natura a doppio taglio della padronanza della meditazione sottolinea l’opportunità dell’integrare la meditazione buddhista con un’educazione morale. Non si tratta di una grande scoperta da parte mia. Quando il Buddha presentò il cammino che portava alla liberazione – l’Ottuplice Sentiero che è svelato nell’ultima delle Quattro Nobili Verità – i precetti morali vi occupavano un ruolo importante. L’idea non era che la meditazione intensiva avrebbe da sola portato l’illuminazione a tutte le sue dimensioni.

Però la meditazione costituisce una parte cruciale del programma.

Un motivo è che le intuizioni che favorisce – compresa la capacità di capire il vuoto – aiutano le intuizioni di ordine morale, sebbene il collegamento tra meditazione e miglioramento di sé non sia del tutto automatico. Un altro motivo è che la meditazione può essere usata per coltivare virtù atte a combattere l’ostilità verso gli altri. Anche se ho già ammesso di non essere portato per la meditazione della gentilezza amorevole, non vi ho rinunciato, ed esorto chiunque a provarla.

Perché il buddhismo fa bene. La scienza e la filosofia alla base di meditazione e illuminazione

robert wright - Perché il buddhismo fa bene
'Perché il buddhismo fa bene' combina psicologia, filosofia, mindfulness, scienza ed esperienza personale. Attraverso un'analisi semplice e profonda l'autore rende accessibili a tutti concetti vertiginosi quali il vuoto o il non-sé e ci spiega come il Buddha abbia descritto migliaia di anni fa aspetti della realtà che gli scienziati stanno scoprendo solo ora. In questo viaggio, insieme contemplativo e pragmatico, la meditazione riveste un ruolo cruciale.
Paolo Subioli

Se uno come Robert Wright non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Ha fatto incontrare il Buddhismo con la psicologia evolutiva, aprendo nuovi filoni, estremamente interessanti, di studio del Dharma.

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[La foto è di Helena Lopes, Brasile]

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