Il Buddha ha descritto una via graduale
Tutti noi, chi più chi meno, chi in parte e chi totalmente, abbiamo deciso di vivere nel mondo – nelle nostre famiglie, nei nostri rapporti di coppia, nei nostri lavori, con i nostri compiti e le nostre responsabilità, con ciò che possediamo, con i nostri desideri, le nostre speranze, e anche con le nostre preoccupazioni e le nostre paure. Abbiamo deciso di vivere questa come la nostra vita, e di accettarla e compierla fino in fondo, sempre e di nuovo: e poiché siamo connessi con tutto, siamo consapevoli che tutti gli esseri umani hanno il profondo desiderio di vivere in pace, armoniosamente e amorevolmente gli uni con gli altri.
Ogni giorno osserviamo però in noi stessi e negli altri che questo non è facile e che spesso in questo nostro tentativo facciamo uso di mezzi che non sono abili; così, particolarmente le persone che hanno incontrato il Dharma, si chiedono cosa possono fare, che cosa possono praticare e come, per poter portare più comprensione e compassione, e con ciò più pace, nella loro vita e nel mondo. La grande quantità e varietà di indicazioni e suggerimenti disponibili genera in molte persone insicurezza e indecisione.
Il Buddha stesso ha descritto una “via graduale”, per così dire una serie sistematica e progressiva di esercizi sulla via spirituale. Essa vale per me sempre come una linea di orientamento e vorrei qui mostrarvene alcuni passi.
Qual è il tuo desiderio più profondo?
Il primo passo sulla via spirituale si chiama orientamento, intenzione, fiducia, certezza. Thay pone sempre la domanda: “Qual è il tuo desiderio più profondo?”; in riferimento alle nostre relazioni questo è: “voglio vivere in pace con te. Questo è il mio più profondo desiderio! Non voglio che si interrompa la comunicazione tra me e te. Voglio imparare a comprenderti meglio, ad accettarti come sei: non voglio perdere l’amorevolezza che provo per te, anche se una volta dovessi mostrarti dei chiari confini.” Ho sempre avuto ciò davanti agli occhi e non me ne lascio mai distogliere, soprattutto quando evidentemente me ne trovo lontano.
Da quindici anni vivo in comunità e continuo tuttora a sperimentare situazioni che per me rappresentano una sfida, e questo primo passo è stato ed è per me la pratica più importante: tenere sempre in mente la mia aspirazione e soprattutto non perdere mai la mia fiducia di base che è possibile realizzarla! Il testo “le invocazioni dei Bodhisattva” mi ha sempre sostenuto e più di tutte mi ispira e mi muove profondamente l’invocazione all’ultimo Bodhisattva, Sadaparibhuta, che non disprezza o svaluta mai nessun essere. Le parole di Thay su questo nel libro “il cuore del cosmo” sono davvero un dono.
Ammorbidire il mio sistema di pensiero rigidamente strutturato.
Il secondo passo sulla “via graduale” si chiama tradizionalmente “going forth”. Si potrebbe tradurre con “lasciare la casa”. Sul tema delle relazioni mi è stato chiesto spesso perché il Buddha ha lasciato la sua famiglia: percepisco sullo sfondo in queste domande un po’ di paura, e perciò vorrei parlarne un po’ più precisamente. Il giovane Gautama, nella sua cultura e nel suo tempo, non aveva altra possibilità che fare questo passo: infatti era saldamente inserito nella struttura sociale esistente, il suo ruolo era rigidamente stabilito e ci si aspettava da lui un determinato modo di pensare e di comportarsi. La sua ricerca di una nuova visione del mondo e quindi di un nuovo modo di pensare e di agire poteva essere realizzata e vissuta soltanto al di fuori di quella società. Ciò non vale più nella nostra forma sociale aperta e moderna, o perlomeno non più nella stessa misura. La maggior parte di noi ha una libertà di sviluppo spirituale finora impensata all’interno della società attuale, cosicché questo aspetto del “lasciare la casa” non è più così in primo piano, anzi si può addirittura stabilire che partendo da qui possiamo riconoscere e sviluppare qualcosa. Proprio per il fatto di vivere in e con la società, possiamo influenzarla in modo più precoce ed intensivo attraverso la nostra pratica, e portare in ogni angolo di essa nuovi modi di pensare e di agire, comprensione e compassione.
L’aspetto vero e proprio, più profondo, del “lasciare la casa” è un processo interiore. Si tratta di ammorbidire il mio sistema di pensiero rigidamente strutturato, riesaminarlo e se del caso demolirlo. Si tratta di riesaminare e investigare le mie idee di come qualcosa dovrebbe essere, di come tu dovresti essere, di come io o la mia famiglia abbiamo sempre fatto, insomma tutto ciò che per me è così familiare, dove io mi sento a casa. Stiamo parlando dei nostri luoghi comuni, delle nostre supposizioni e affermazioni prive di riflessione, della nostra ristrettezza mentale. Questa è la mia seconda grande, e spesso impegnativa, pratica. Quando ancora una volta le cose non vanno come io mi ero immaginato, quando sento che in me in qualche modo qualcosa comincia a chiudersi, quando comincio a controllare, ad attaccare o a difendermi, allora so che sto di nuovo restando bloccato nel mio vecchio, abituale mondo interiore. E allora è il momento di stare in silenzio, di prendere contatto con il mio spazio interiore, con la mia libertà, con la mia “grande mente”; e poi ritorno nella mia creatività, accetto con gratitudine la “spinta”, e ogni volta arrivo a nuove comprensioni e soluzioni che prima non riuscivo a vedere.
Lo spazio aperto della visione profonda
Il terzo passo è tradizionalmente collegato alla pratica degli “silas”, gli Addestramenti alla Consapevolezza, che generalmente vengono tradotti con “comportamento etico”: è l’inizio di un addestramento mentale sistematico e mirato. Si tratta per prima cosa di entrare in contatto con i nostri stati mentali non abili di attaccamento, incapacità di lasciar andare, avidità, rifiuto, aggressività, odio, illusione e ristrettezza mentale. Con ciò si intende: come mi sento, che esperienza faccio quando mi trovo in uno di questi stati mentali? Come mi sento quando sono irritato, forse addirittura aggressivo o furioso, quando voglio ottenere, quando sono bisognoso o avido, quando mentalmente mi chiudo, quando mi ostino nel mio punto di vista? Sono in contatto con questa ristrettezza, questo bisogno, questa disperazione, questa sofferenza in me? Sono consapevole del fatto che se io agisco a partire da questo stato mentale, da questa esperienza, posso essere soltanto “non abile”, che in questo momento non trasmetto altro che la mia sofferenza e così faccio soffrire anche gli altri? Questa è la grande pratica del sapersi fermare, del saper tornare a se stessi, del non dover agire per forza, del saper tornare indietro, che Thay ci indica sempre come l’addestramento fondamentale!
Dobbiamo togliere gli Addestramenti alla Consapevolezza dal loro tradizionale “angolo” della morale e del comandamento per portarli nello spazio aperto della visione profonda, dell’esperienza e della responsabilità, come Thay ha mostrato nella sua formulazione dei Cinque Addestramenti alla Consapevolezza. Se noi riuscissimo a praticare e a realizzare anche solo un po’ di tutto questo, già molto nelle nostre relazioni cambierebbe. Allora vediamo anche quali stati mentali noi possiamo e dobbiamo mettere in contrapposizione dall’altra parte, e siamo profondamente motivati e felici di confrontarci con essi e coltivarli.
Questi sono i primi passi su una lunga via di sviluppo spirituale, che in generale inizia con una mente ristretta, riferita a me stesso, condizionata e sofferente, e si sviluppa poi fino ad arrivare ad una “grande mente”, libera, aperta e piena di comprensione e compassione. C’è molto da imparare e molto in cui esercitarsi su questa via, ma questi primi passi ci danno già una buona, stabile base.
Scarica il testo:
Karl Riedl, Vivere e praticare nel mondo (pdf)
Dalla rivista “Intersein”, numero 33, novembre 2008.
[La foto è si Moyan Brenn, Italia]You need to login or register to bookmark/favorite this content.