
I precetti buddhisti costituiscono dei punti di riferimento che si fondano su una responsabilità etica personale, rispetto ai quali non c’è controllo esterno, e dove ciò che conta realmente è l’intenzione.
Mi sono accorta, in alcune delle persone che vogliono imparare a meditare, di una sorta di perplessità quando introduco, come fondamento essenziale del percorso, la presenza etica. La parola “etica” suggerisce immediatamente ad alcuni qualcosa di rigido, di secco, di imposto dall’alto o dall’esterno, di rinunciatario e quindi di dimesso e triste. Eppure, il Buddha parla di gioia dell’etica, e insegna che per uscire dall’attaccamento occorre appoggiarsi sulla gioia del non-attaccamento. Il sollievo di una mano che smette di stringere, che si apre. E raro sentir dire da qualcuno che sceglie di fare o di non fare qualcosa per una scelta etica.
Quando ho incontrato questa parte fondamentale della pratica buddhista, ho provato un enorme sollievo, la sensazione di poter avere delle pareti, un rifugio contro la precarietà delle opinioni e le storie complicate che ci raccontiamo per scappare dalle responsabilità della vita.
Ci sono cinque linee guida, spesso definite “precetti”, nome che mi fa accapponare la pelle. Un amico sanscritista, anni fa, fece per me una ricerca del termine con cui li chiama il Buddha. La parola è Sila, la stessa che significa anche “etica” in generale. Il suo dizionario di sanscrito specificava il concetto con un esempio: «Il Sila del fuoco è quello di bruciare». Quindi, le linee guida dell’etica buddhista sono la nostra vera natura come la natura del fuoco è quella di bruciare. Sono principi comuni a tutte le visioni interiori, religiose o laiche: non uccidere, non prendere quel che non ci è dato, non creare sofferenza con la sessualità, non mentire, non assumere intossicanti.
In realtà, non essendoci alcun punitore o controllore esterno, sono luoghi di ricerca e di sperimentazione. Allora il loro raggio si allarga a dismisura, come fari nella notte ci permettono un’interrogazione ampia sul nostro agire, dire, pensare. Per il Buddha è il pensiero il luogo in cui è più necessario vegliare. La responsabilità etica è personale, ci si appella alla propria coscienza perché nella visione del Buddha quello che conta è l’intenzione, e dunque dall’esterno è molto difficile poter giudicare un altro, visto che non ne conosciamo l’intenzione. Come sempre, questa sottigliezza è manipolabile dalle nostre menti fanfarone, dal desiderio costante di salvarci la faccia, ma praticare è diventare sempre pili onesti e compassionevoli e quindi più sani, pili interi. Essere interi rende la coscienza leggera e trasparente, è più facile raccogliersi, ci sono meno pezzi da richiamare a casa.
Riflettere e posarsi nelle zone dell’etica significa allargarne i confini e la portata simbolica. Ci accorgiamo allora che è possibile uccidere con le parole, con uno sguardo, con i pensieri. E questo accorgersi non è finalizzato ad alcun senso di colpa, inesistente nel Buddhismo, ma a un salutare rimorso, alla percezione di un sapore che non ci piace e quindi alla svolta inevitabile verso lo smettere di fare il male e scegliere il bene. Il bene è spesso piccolo, irrisorio, un po’ ridicolo, molto consapevole. Fa uscire dagli automatismi, è poco convenzionale: grazie, non mi piace parlare male degli altri. E si crea un profondo silenzio.
Non prendere quel che non ci è dato si amplia dal mondo delle cose a quello del pensiero e del sentimento, alla curiosità illecita, alla famelicità, alla rapina interiore. Apre il grande spazio dell’economia del dono, la generosità e la gratitudine si accendono e ci fanno vedere tante sfumature nascoste dalla scontatezza.
Non mentire è di per sé un impegno ampio e sfumato e portare l’attenzione sul campo ci fa vedere quanto in realtà la nostra parola sia colma di menzogna. Chiamiamo “gentilezza” o “tatto” una manierata cortesia che nasconde solo compiacenza o paura di affrontare l’altro. Ma non solo, il Buddha parla anche di evitare la parola divisiva, aspra, e futile. La maldicenza e il vaniloquio sono dolorosi e cosi comuni da passare inosservati alle nostre orecchie, ma non al cuore che si restringe e si intristisce. Ci abituiamo a parlare dettati dai veleni della mente. Riuscire poi a dire il vero senza durezza o asprezza è il lavoro di una vita. Un monaco in un colloquio personale mi disse: «Il tuo impegno a dire il vero, Chandra, è onorevole, ma chiediti anche se è utile, se è il momento giusto e il luogo giusto Una svolta verso il rallentamento; la passione del vero può diventare fondamentalismo dell’autenticità che non vede più l’altro, non rispetta, tanto quanto il mentire, nascondere, fingere, essere cortesemente ipocriti.
Sperimentando l’etica della vita, si allarga anche il campo delle ferite procurate dalla sessualità, dalla seduzione e dal narcisismo incurante. Ci accorgiamo del bisogno compulsivo di alterare la mente con l’alcool o altri intossicanti per non sostare in stati scomodi, dolorosi, o semplicemente opachi o poco sociali. Come pure del nostro bisogno di intossicazione che significa non saper restare mai vuoti, riempirci di notizie inutili, di discorsi arroganti o amari, di futilità, di scherzosa cattiveria.
La prima volta che sono stata in monastero, non capivo cosa fosse un vago senso di benessere che mi circondava, come una nebbiolina leggera. Investigando nel mio cuore, col passare dei giorni, mi accorsi che quello che veniva apprezzato intorno a me era semplicemente il livello di bontà di una persona. Non le azioni, le parole, la facciata, ma proprio quel senso di buon sapore che si sente quando qualcuno è senza farlo apposta buono.
E l’etica, come la meditazione, è un deciso gesto politico, è cura verso la comunità umana. Se venisse seguita anche solo la prima linea guida, non uccidere, è inimmaginabile come cambierebbe il mondo.
Un’ antica favola africana racconta del giorno in cui scoppiò un grande incendio nella foresta.
Tutti gli animali abbandonarono le loro tane e scapparono spaventati.
Mentre fuggiva veloce come un lampo, il leone vide un colibrì che stava volando nella direzione opposta.
«Dove credi di andare? — chiese il Re della Foresta. — C’è un incendio, dobbiamo scappare! »
Il colibrì rispose: «Vado al lago, per raccogliere acqua nel becco da buttare sull’incendio».
Il leone sbottò: «Sei impazzito? Non crederai di poter spegnere un incendio gigantesco con quattro gocce d’acqua!?»
Al che, il colibrì concluse: «Io faccio la mia parte».
Da: Chandra Livia Candiani, “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione“, Einaudi, 2018.
Nota: i grassetti e i corsivi non erano presenti nel testo originale.

I precetti buddhisti
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Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione

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