Tiziano Fratus – Meditare è raggiungere l’illuminazione?

raggiungere l'illuminazione

Raggiungere l’illuminazione è lo scopo della meditazione? Tiziano Fratus – nel suo ultimo libro “Sutra degli alberi” – esamina le diverse scuole di pensiero nello Zen su questo argomento.

Molti praticanti buddisti ritengono che meditare sia la parte principale, preponderante, della pratica. Sebbene avremmo molti esempi che i monaci dei secoli passati ci hanno lasciato per pensare diversamente, noi occidentali moderni ci abbandoniamo sovente a quest’idea. Risultano ovviamente importanti i consigli che i maestri giapponesi arrivati in Europa hanno seminato, come Deshimaru, che ripeteva quanto una buona postura e lo zazen fossero la pratica stessa. Ma tutto questo basta per arrivare a quella soglia fatidica che tanto ricorre nelle considerazioni di noi buddisti, ovvero l’ossessione per un’illuminazione? La piena e profonda consapevolezza? O La chiarezza, termine che personalmente apprezzo e accarezzo? Prima d’iniziare a meditare insieme nei vari luoghi che questo mondo ci offre, tra boschi e cascate, al sinfonico ticchettare della pioggia o nel silenzio vascolare della notte, mi pare utile avvicinarci a questo tema che nella letteratura buddista occupa un posto di assoluto rilievo.

Come ci si illumina? Per quanto buffa possa risuonare questa domanda la risposta ci consente di fare i conti con qualcosa di pratico e che riguarda chiunque di noi. Tradizionalmente nella Cina si riconoscono due scuole del ch’an dei primi secoli: la scuola del nord, che potremmo sinteticamente indicare come gradualista, e la scuola del sud, che invece potremmo aggettivare come intuizionista o istantaneista. Per i monaci buddisti dei monti del nord della Cina l’illuminazione si raggiungeva per gradi, con successivi stadi di maggiore profondità; la pratica occorre per rafforzare questi passi, e lo stato di illuminazione va anch’esso rinnovato, senza disciplina e continuità si può smarrire. Al contrario, i membri della scuola meridionale pensavano che l’illuminazione si presentasse inattesa, improvvisamente: magari è l’urlo di un gufo di notte, magari è una ciotola che cade e si frantuma, magari è uno schiaffo, una parola detta per caso, uno scherzo, un colpo di bastone, una caduta nei boschi, come accadde a Musō Soseki.

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In genere nelle raccolte di documenti che riguardano la vita più o meno esemplare dei Patriarchi si ricordano spesso questi “improvvisi”, e noi che sbirciamo in tutto questo sfogliare di pagine dal nostro tempo di tecnologia diffusa e ipercomunicazione, e dunque che abbiamo sempre fretta in ogni cosa, le accarezziamo come potenziali suggerimenti per noi stessi.

Prima di metter piede in uno zendo anch’io nutrivo molta simpatia per questi episodi, poiché facevo risalire un mio kenshō – che vuol dire guardare a fondo, guardare profondo, guardare meglio – o istante di folgorazione a quando, come raccontavo in precedenza, ebbi tra le sequoie californiane di Big Sur quella concreta e poderosa sensazione di comunione del mio spirito con quello di alcuni titani silenziosi. Da quando ho iniziato a praticare con delle guide, accanto ad altri praticanti, e poi ogni giorno nel mio piccolo eremo, nell’orto e tra i boschi, invece ho iniziato ad apprezzare il valore del quotidiano, ho smesso di attendere l’arrivo di un’illuminazione “quantica” che possa venire dalle parole di un kōan o da qualsiasi altra esperienza quotidiana, la scossa che tutto cambierà; la pratica è diventata essa stessa chiarezza.

Certo, non è facile cercare di coordinare le azioni della nostra vita con gli insegnamenti del buddismo, senza vivere da monaco in una realtà monastica: ma come libero uomo senza abiti, senza uniforme, senza ruolo, è tutt’altro che scontato ed elementare; ma l’innervare ogni gesto, anche il bestemmiare che ogni tanto mi scappa, anche l’irruenza che è nella mia natura e ogni tanto mi soverchia, anche l’impazienza, l’ingenerosità, la supponenza, la superficialità, è questa la prova che può condurre alla chiarezza. Non una trasformazione radicale, ma un lento adattarsi, un lento colmarsi e capirsi.

La scuola buddista zen nel cui abbraccio ho mosso i miei primi passi è la Rinzai, o Linchi come viene chiamata in Cina. La meditazione in questa scuola ha uno scopo: carpire il senso vero di un insegnamento che viene trasmesso da un maestro a un allievo, ovvero da un praticante esperto e si spera savio a un praticante inesperto, ancora troppo coinvolto in tutti i fatti e le necessità della vita.

Capire i kōan

I kōan sono discorsi, dialoghi, episodi al limite del parossistico e dell’assurdo che non vanno compresi con la logica razionale alla quale noi consegniamo parte della nostra esistenza, ma con il corpo, con la semplicità dello sguardo buddista. Spesso la meditazione è esercitata per arrivare a consegnare la giusta risposta al maestro, la tua guida. Se il maestro si ritiene soddisfatto si passa a un altro kōan. Esistono raccolte ed elenchi di kōan, più se ne passa e più si “guadagna” in termini di profondità e consapevolezza. Dall’esperienza che ho avuto, i kōan servono anzitutto non tanto a comprendere ma ad “affratellare” il praticante inesperto al praticante esperto; crea un legame indissolubile, come se fossero un figlio e un padre devoti l’uno all’altro, e non a caso alcuni esponenti della linea Sōtō presente in Italia oggi parlano di “maestro radice”.

Personalmente non ho mai sentito l’urgenza di “capire” i kōan, li sento come già sviluppati, non accolgo in me alcun bisogno di realizzarmi superandoli, non ci vedo nulla da capire, appartengono a una cultura e a una pratica che mi coinvolge e che non cerco di vivere come una corsa a ostacoli. Credo che le risposte che giacciono lì dentro siano raggiungibili in ogni gesto della nostra pratica quotidiana, conciliando azione, pensiero e spirito.

Roberto Kengaku Pinciara, uno dei nostri maestri zen, mi diceva tempo fa, quando lo incontrai nella sua casa-zendo nell’Oltrepò Pavese, che i kōan sono strumenti utili all’interno di una cornice che è la vita nel monastero; una volta che hai abbandonato ogni cosa, che hai imboccato il sentiero del monaco, allora, in questa tua nuova forma di esistenza e convivenza, i kōan assumono un ruolo, una funzione chiara e utile alla formazione del monaco e del rapporto tra i membri della comunità. Come noi oggi li trattiamo, durante i ritiri di un fine settimana o di qualche giorno, sembrano diventare delle opportunità di comprensione; li abbiamo necessariamente estrapolati ma così restano come dei corpi sospesi, fuori dalla propria acqua.

Non a caso alcuni dei primi maestri che hanno vissuto in Occidente, e penso a Nyogen Senzaki negli Stati Uniti, non li adottava, non li proponeva agli occidentali che seguivano i suoi incontri, nonostante appartenesse alla scuola Rinzai. Contrariamente, nella scuola Sōto, o Caodong come è nota sul continente, la meditazione è detta “senza scopo”, e silenziosa: non si medita per risolvere il kōan e presentarsi davanti al maestro per dare la risposta giusta; si medita e si vive, punto. Questo a rigor di teoria e di storia, poi ogni maestro e ogni scuola segue un percorso tutto suo, e non sono pochi i casi di scuole Sōtō che frequentano ad esempio i kōan.

A ogni modo, che il lettore appartenga a una scuola o a un’altra, che riponga fiducia in un’illuminazione istantanea o graduale, sontuosa o minimale, meditare in natura, nelle diverse nicchie e situazioni presenti nel paesaggio, è un’esperienza rinvigorente. Il mio ideale sarebbe quello di abbandonare le sale e i tempi prestabiliti, i cicli di venticinque, trenta o quaranta minuti, questa ritualità geometrica e circolare che si pratica nelle comunità. La stessa idea di ritiro di due o tre giorni mi risuona come una prova di ascesi, un affrettarsi lungo il sentiero.

Essere buddisti semplicemente tutti i giorni? E quando ci si ritrova a passare giornate o nottate, perché no, nei boschi, nelle foreste, nelle riserve, in montagna o su un’isola, in un orto botanico o in un parco alberato, e qui abbandonarsi a noi stessi per alcune ore, senza contare, senza contarsi: si può meditare per cinque ore di fila, oppure meditare un’ora e poi alzarsi, scambiare due parole con chi ci risulta simpatico, andare a fare due passi, raggiungere quella cima, o leggersi i sermoni di un antico maestro. E poi parlarsi, confrontarsi, raccontare di sé, perché no, non soltanto recitare sutra in lingue alle quali, poco a poco, ci annidiamo. Essere liberi tessitori di foreste.

Da: Tiziano Fratus, “Sutra degli alberi“, Piano B Edizioni, 2022.

[La foto su raggiungere l’illuminazione è di Mikhail Nilov, Stati Uniti]

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