
Sentirsi feriti e impegnarsi nella pratica
Una studentessa di Zen mi ha telefonato per lamentarsi dell’insistenza con cui sottolineo la difficoltà della pratica. “Penso che sbagli a spingere i tuoi studenti a prendere la pratica tanto seriamente. La vita dovrebbe essere piacevole e divertente”, mi ha detto. Le ho chiesto: “Con te ha funzionato?”. Ha risposto: “No, non ancora. Ma continuo a sperare”
Capisco il suo punto di vista e sono d’accordo con quanti sentono che la pratica è realmente un duro lavoro. È così. Ma mi dispiace per tutti quelli che non sono ancora disposti a intraprendere questo duro lavoro, perché soffrono di più. Comunque, ciascuno deve fare le proprie scelte, e alcuni semplicemente non sono pronti per una pratica seria. Ho detto alla studentessa: “Puoi scegliere se praticare o non praticare, ma io ti appoggerò ugualmente”. Qualunque cosa le persone facciano, io le appoggio perché significa che sono arrivate a quel punto, e va benissimo.
Il fatto è che, per la maggior parte di noi, la vita non va bene. Finché non ci impegniamo in una pratica seria, la nostra visione fondamentale della vita rimane tale e quale. La vita continua a esasperarci, e diventa sempre peggio. Una pratica seria diventa indispensabile se vogliamo capire la falsità che è dietro a quasi tutte le azioni, i pensieri e le emozioni umani.
Come esseri umani percepiamo la vita attraverso un preciso apparato sensoriale e, poiché persone e cose ci sembrano esterni a noi, sperimentiamo molta sofferenza. La nostra sofferenza sgorga dalla falsa percezione di essere separati. Certo, sembra che io sia separata dagli altri e da tutto il mondo fenomenico, ma è la falsa percezione di essere separati che genera tutte le difficoltà della vita.
Finché penseremo di essere separati, soffriremo. Sentendoci separati crederemo di doverci difendere, di dover cercare di essere felici, di dover trovare nel mondo che ci circonda qualcosa che ci renda felici.
La realtà è che non siamo separati. Siamo tutti espressioni, emanazioni di un punto centrale. Chiamiamolo energia multidimensionale. Non possiamo raffigurarlo, perché il punto centrale o energia non ha dimensioni, né spazio, né tempo. Sto parlando metaforicamente di ciò che non può venire descritto nel linguaggio comune.
Per continuare con questa metafora, è come se il punto centrale irraggiasse miliardi di raggi, e che ciascun raggio pensasse di essere separato dagli altri. In realtà ciascuno di noi è sempre quel centro, e il centro è noi. Poiché tutto si unisce al centro, siamo tutti una cosa sola.
È un’unità che non vediamo. Forse, se conosciamo la fisica moderna, possiamo capirla intellettualmente. Con la pratica di anni e anni, qualche sentore di questa verità comincia a filtrare qua e là nella nostra esperienza: non ci sentiamo più così separati dagli altri. Iniziando a sentirci meno separati, gli eventi della vita non sono più così sconvolgenti. Situazioni, persone e difficoltà atterrano su di noi con un po’ più di leggerezza. Sta avvenendo un sottile cambiamento, un processo che si rafforza pian piano nel corso di una vita dedicata alla meditazione. Possono esservi brevi momenti in cui facciamo luce su ciò che siamo, anche se tali momenti non sono, in sé, così fondamentali. Ben più importante è la comprensione, che cresce a poco a poco, di non essere separati. In termini ordinari continuiamo a esistere separatamente, ma non ci sentiamo più separati. Di conseguenza non lottiamo più tanto con la vita: non dobbiamo più ostacolarla, non dobbiamo più compiacerla, non dobbiamo più preoccuparcene. Questo è il percorso della pratica.
Se non lottiamo con la vita, significa che la vita non può più ferirci? C’è qualcosa di esterno a noi che può davvero ferirci? Come studenti di Zen forse abbiamo imparato, almeno intellettualmente, a rispondere di no. Ma come la pensiamo davvero? C’è una persona, una situazione che possa ferirci?
Tutti, ovviamente, pensiamo che c’è. Lavorando con i miei studenti sento una serie infinita di esperienze di ferite e delusioni. Sono tutte versioni di: “Guarda cosa mi è successo”. Il compagno, i genitori, i figli, gli animali domestici: “Mi è accaduto questo e mi addolora”. Ecco com’è la nostra vita. Le cose vanno lisce per un certo tempo, poi accade all’improvviso qualcosa che mi sconvolge. In altre parole siamo vittime, Questa è la comune visione umana della vita, incallita e direi quasi innata.
Sentendoci vittime del mondo, cerchiamo qualcosa di esterno a noi che possa sollevarci dalla nostra pena. Può trattarsi di una persona, riuscire a ottenere qualcosa che desideriamo, un lavoro migliore, un riconoscimento. Non sa sappiamo dove guardare, siamo feriti, e cerchiamo conforto da qualche parte.
Finché non vedremo realmente di non essere separati da niente, continueremo a lottare con la vita. Lottando, ci procuriamo dei guai, Faremo cose folli, ci sentiremo sconvolti, delusi, manchevoli. come se la vita ci sottoponesse una serie di domande che non hanno risposta. Non hanno risposta perché non c’è risposta. E perché?
Perché sono false domande, non scaturiscono dalla realtà. Quando cominciamo a capire che è un errore sentire che qualcosa è sbagliato e che va rimesso a posto, inizia una pratica seria. La donna che mi ha telefonato non è ancora arrivata fin qui. Continua a immaginare che qualcosa di esterno la farà felice. Forse un milione di dollari?
Nei praticanti, invece, c’è una piccola crepa nell’armatura, una piccola intuizione. Può darsi che non vogliamo accorgerci di questa intuizione. Comunque sia, cominciamo a capire che c’è un altro modo di vivere oltre al sentirci aggrediti dalla vita e all’andare in cerca di rimedi.
Sin dall’inizio non c’è niente di sbagliato. Non c’è separazione, è un’unica totalità raggiante. Nessuno lo crede, ed è difficile da afferrare se non si è praticato molto. Ma bastano sei mesi di pratica intelligente per dare un piccolo scossone alla falsa impalcatura delle nostre credenze. Qua e là nella struttura si aprono crepe. Praticando negli anni, l’impalcatura si indebolisce. Quando crolla del tutto, ecco lo stato illuminato.
Sì, dobbiamo essere seri nei riguardi della pratica. Ma se non siete pronti a essere seri, va benissimo. Vivete la vostra vita così com’è. Forse avete bisogno di essere maltrattati per un altro po’. Va benissimo. Nessuno dovrebbe venire in un centro zen finché non sente che non c’è nient’altro da fare: quello è il momento di venirci a trovare.
Ora torniamo alla nostra domanda: c’è davvero qualcosa o qualcuno in grado di ferirci? Prendiamo una disgrazia oggettiva: la perdita del lavoro o una grave malattia, tutti i miei amici si sono allontanati, ho perso la casa in un terremoto. Ne rimarrò ferita? Naturalmente penso di si. Quando accade una cosa del genere è tremendo. Ma davvero siamo restare feriti da tali eventi? La pratica ci aiuta a vedere che risposta è no.
La pratica non sta nel non sentirsi feriti. La ‘ferita’ c’è: il lavoro perduto, la casa distrutta. Ma la pratica mi aiuta a vivere i momenti di crisi e ad accettarli serenamente. Se siamo immersi nella nostra ferita, siamo un grumo di dolore che non serve a nessuno. Se invece non ci avviluppiamo nel nostro melodramma, possiamo essere utili anche in mezzo a una crisi.
Che cosa accade con la vera pratica? Perché la sensazione di venire feriti dalla vita inizia col tempo a indebolirsi? Che cosa avviene?
Solo un sé egocentrico, un sé aggrappato a mente e corpo, può essere ferito. Tale sé è in realtà un concetto formato dai pensieri in cui crediamo, ad esempio: “Se non posso averlo, starò malissimo”, o “Se non mi va bene, sarà terribile”, o “Non avere una casa è davvero orribile”. Ciò che chiamiamo il sé non è altro che una serie di pensieri a cui siamo attaccati. Se siamo totalmente assorbiti nel nostro piccolo sé, la realtà, l’energia fondamentale dell’universo, resterà completamente ignorata.
Supponiamo che mi senta sola, senza nessun amico. Cosa accade se siedo dentro questa sensazione? Comincio a capire che la mia sensazione di solitudine è in realtà solo pensieri. Nella realtà dei fatti, io sono seduta qui. Forse sono seduta da sola nella mia stanza, senza appuntamenti in vista. Nessuno mi ha chiamata e mi sento sola. Ma, nella realtà, io sono semplicemente seduta. Il senso di solitudine e di abbandono sono pensieri, l’opinione che le cose dovrebbero essere diverse da come sono. Non li vedo in profondità, non mi sono accorta che io stessa costruisco il mio dolore. La realtà dei fatti è che sono seduta in una stanza. Occorre tempo per capire che stare seduta lì è ottimo, perfetto. Mi aggrappo al pensiero che, senza amici divertenti che mi sostengano, sono depressa.
Non vi invito certo a tagliarvi fuori da tutto per essere liberi dall’attaccamento. L’attaccamento non riguarda ciò che abbiamo, ma le nostre opinioni su ciò che abbiamo. Non c’è niente di sbagliato nell’avere una buona disponibilità di denaro: l’attaccamento c’è quando non riusciamo a immaginare di vivere senza quel denaro. Lo stesso per i rapporti umani, perché stare con gli altri è una grande felicità. Ma, a volte, ci troviamo in situazioni in cui siamo costretti alla solitudine. Ad esempio, potrebbe capitarci di lavorare a un progetto che ci obbliga a vivere sei mesi nel deserto. Per molti di noi sarebbe terribile. Ma se mi trovo nel bel mezzo del nulla per sei mesi, questo è ciò che c’è, è semplicemente ciò che sto facendo.
Il lento e difficile cambiamento indotto dalla pratica fonda la nostra vita e le dà più pace genuina. Senza lottare per essere in pace, scopriamo che le tempeste della vita ci colpiscono sempre più lievemente. Iniziamo ad allentare l’attaccamento ai pensieri che identifichiamo con noi stessi. L’io è un concetto che si logora con la pratica.
La verità è che niente ci può ferire. Il fatto è che pensiamo che qualcosa ci possa ferire e che lottiamo per rimediare al pensiero di essere feriti, in modi non sempre efficaci. Cerchiamo di porre rimedio a un falso problema mediante una falsa soluzione, ed è ovvio che questo ci mette nei guai. Le guerre, i danni all’ambiente… tutto ciò viene dall’ignoranza.
Finché rifiutiamo il lavoro della pratica, e lo rifiuteremo finché non saremo pronti, ci sarà sofferenza in noi e in tutto ciò che ci circonda. Praticare non è una questione di bene o di male, di giusto o sbagliato. Dobbiamo essere pronti. Ma, se non pratichiamo, il prezzo da pagare è salato.
Naturalmente l’unità originaria, il centro dell’energia multidimensionale, rimane inalterato. Non c’è alcuna possibilità di turbarlo. Semplicemente è, ed è ciò che noi siamo. Ma, dal punto di vista della vita fenomenica, c’è un prezzo da pagare.
Non voglio suscitare sensi di colpa, che non sono altro che pensieri. Non intendo criticare la donna che non è disposta a praticare seriamente. Quello è il punto in cui si trova, e per lei è perfetto. Ma, praticando, la nostra resistenza alla pratica diminuisce, anche se occorre tempo.
Da: Charlotte Joko Beck, “Niente di speciale. Vivere lo zen“, Astrolabio Ubaldini, 1994.
Niente di speciale. Vivere lo zen

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