Il significato di Sangha nel Buddhismo è in evoluzione. Per un’epoca laica come questa, dice Stephen Batchelor, vale il senso di comunità, in cui gruppi di amici, accomunati da valori condivisi, si sostengono a vicenda.
Il significato di Sangha
Nel corso dei secoli il termine ‘comunità’ (sangha) è stato per lo più monopolizzato dalle istituzioni monastiche. Nell’India del quinto secolo a. C., al contrario, la parola sangha si riferiva alle società repubblicane (come per esempio quella dei Mallā e la confederazione dei Vajji) che furono governate da assemblee anziché da monarchie (come per esempio il Magadha e il Kosala). Gotama non solo formò esplicitamente la sua comunità sul modello di una società repubblicana, ma ribadiva di continuo che l’assemblea dei suoi seguaci era quadruplice: comprendeva i bhikkhu e le bhikkhunī, e i laici di entrambi i sessi. Inoltre, questa comunità, invece di sottoporsi alla volontà di un mendicante anziano (come Mahākassapa), doveva autogovernarsi aderendo a un corpo impersonale di leggi (dharma). E, soprattutto, l’appartenenza alla nobile comunità (ariyasangha) era determinata non in base allo stato sociale ma all’entrata nella corrente: vale a dire, non dallo stato di asceta o capofamiglia, ma dall’aver fatto proprio l’ottuplice sentiero.
In un’epoca laica come la nostra, è difficile immaginare che il modello asiatico del monachesimo buddhista si radichi al di fuori delle comunità buddhiste o di piccoli gruppi di convertiti tradizionalisti. Immaginare un sangha laico inizia col porre una domanda fondamentale: chi detiene l’autorità? Se seguiamo i primi testi, apprendiamo che la fonte dell’autorità è il dharma. Quando ristabiliamo questo principio essenziale spesso dimenticato, monaci e capifamiglia, uomini e donne, sono considerati soggetti a una legge che sostituisce qualsiasi potere istituzionale si possa acquistare nel corso di una carriera nella gerarchia buddhista. Un sangha laico, quindi, permette di dare potere a coloro che prima erano deboli ed emarginati. Ciò non vuol dire, tuttavia, che i seguaci dovrebbero ora sostituire i mendicanti all’apice della gerarchia. Porre l’autorità nel dharma comporta abbandonare qualsiasi gerarchia e sostituirla con un modello (come quello dei quaccheri) che funziona con il consenso fra pari spirituali.
Un sangha laico è una comunità di individui autonomi che pensano in modo simile, uniti dall’amicizia, e che lavorano per sostenersi a vicenda nel proprio progresso. Tale comunità è una pratica continua; richiede impegno e azione. In quanto comunità vivente, dove tutti i membri si considerano lavori in corso, è un progetto incompiuto. È qui utile la distinzione di Martin Buber fra comunità e collettività. Mentre i membri di una collettività rinunciano alla loro autonomia per raggiungere uno scopo condiviso, quelli di una comunità creano reti di amicizia che sostengono e onorano il processo di individuazione di ogni membro entro un contesto di valori condivisi.
Tale concezione del sangha potrebbe essere solo un ennesimo ideale utopistico, che non ha alcun peso su ciò che gli esseri umani potrebbero realisticamente ottenere? Se adottiamo questo ideale, non rischiamo forse di respingere un modello di comunità che, nonostante le sue imperfezioni, si è dimostrato valido nel corso di molti secoli? L’ordine monastico buddhista, dopo tutto, è una delle istituzioni umane più longeve che il mondo abbia mai conosciuto. In che modo, allora, i buddhisti laici possono creare, sostenere e coltivare un sangha sulla base di principi comuni e orientati verso il dharma? Come possono trovare una via di mezzo fra le istituzioni religiose autocratiche e gerarchiche da una parte, e l’individualismo isolato e alienato dall’altra? Questa è la sfida.
Da: Stephen Batchelor, “Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica“, Astrolabio Ubaldini, 2018.
Il Sangha di Zen in the City
La descrizione che Stephen Batchelor fa del significato di Sangha è in forte sintonia con il comune sentire di molti tra quanti oggi praticano la meditazione. C’è il desiderio di crescere individualmente, ma anche la percezione di quanto sia importante non farlo in modo isolato. C’è interesse per gli insegnamenti del Buddha, ma al tempo stesso diffidenza verso atteggiamenti dogmatici o reverenziali. Batchelor parla di sfida, ma la risposta a tale sfida difficilmente può essere univoca e tanto meno definitiva. È solo attraverso la sperimentazione e il lavoro incessante di molti che potrà prendere forma il Sangha del XXI secolo. Un Sangha che probabilmente non avrà una sola forma, ma molte.
Zen in the City raccoglie volentieri la sfida, perché attorno a questo sito già da anni si raccoglie una comunità (finora solo potenziale) di praticanti desiderosi di approfondire, di sperimentare e di condividere. Faremo quello che potremo con le potenzialità enormi delle tecnologie digitali, ma anche consapevoli dei loro limiti.
Il Sangha di Zen in the City sarà la comunità di riferimento:
- per chi nella pratica di meditazione vede uno strumento per trasformare in modo positivo la propria vita;
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Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica
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