
Le conseguenze di una forte arrabbiatura possono essere perfino letali, per il cuore. Daniel Goleman, citando molti studi sull’argomento, dimostra come sia un generale atteggiamento negativo a causare problemi.
Bastò un attimo, disse l’uomo, e un urto sulla fiancata della sua auto diede inizio a una battaglia inutile e frustrante. Dopo infinite lungaggini burocratiche con l’assicurazione e con diversi carrozzieri che peggiorarono il danno, si ritrovava ancora con un debito di 800 dollari. E non era nemmeno stata colpa sua. A tal punto ne aveva abbastanza, che ogni volta, entrando in macchina, veniva sopraffatto dal disgusto. Alla fine, spinto dalla frustrazione vendette l’auto. A distanza di anni, questi ricordi avevano ancora il potere di farlo illividire per il risentimento.
Questi amari ricordi vennero deliberatamente richiamati alla mente durante uno studio sulla rabbia nei pazienti cardiaci, compiuto presso la Stanford University Medical School. Proprio come l’uomo amareggiato del racconto, tutti i pazienti che presero parte allo studio avevano già avuto un primo attacco di cuore; l’interrogativo al quale si voleva rispondere era se la rabbia potesse avere un qualunque impatto significativo sulla loro funzione cardiaca. L’effetto emerse evidente: mentre i pazienti raccontavano gli episodi che li avevano fatti uscire di sé, l’efficienza della loro pompa cardiaca diminuì di cinque punti percentuali. Alcuni pazienti andarono incontro a un calo di efficienza cardiaca pari o superiore al 7 per cento — un ordine di grandezza che i cardiologi ritengono segno di ischemia miocardica, ossia di una pericolosa diminuzione del flusso ematico al cuore.
La diminuzione dell’efficienza della pompa cardiaca non veniva osservata in associazione ad altri sentimenti penosi — ad esempio all’ansia — né durante gli sforzi fisici; sembra che la rabbia fosse l’unica emozione in grado di far tanto danno al cuore. I pazienti affermavano che mentre ricordavano l’episodio che li aveva fatti adirare, la loro rabbia era solo circa la metà di quella che avevano provato quando era accaduto il fatto; questo faceva pensare che durante il vero e proprio attacco di rabbia il loro cuore avesse avuto difficoltà ben maggiori.
Questa scoperta fa parte di una serie più ampia di prove emerse da decine di studi, tutte indicanti la capacità della rabbia di arrecar danno al cuore. La vecchia idea, secondo la quale individui con personalità di Tipo A (frenetica e con alta pressione) fossero da ritenersi ad alto rischio per le patologie cardiache, non ha retto; da quella teoria sbagliata, però, è emerso un nuovo riscontro: ciò che mette davvero a rischio l’individuo è l’ostilità.
Molti dati sull’ostilità provengono dalle ricerche di Redford Williams, della Duke University. Ad esempio, Williams scoprì che i medici che avevano ottenuto i massimi punteggi in un test sull’ostilità quando ancora frequentavano la facoltà di medicina, avevano una probabilità sette volte maggiore, rispetto ai colleghi i cui punteggi di ostilità erano bassi, di morire entro i cinquant’anni; in altre parole, essere soggetti alla rabbia era un fattore predittivo di morte prematura più potente di quanto non lo fossero fattori di rischio riconosciuti come il fumo, l’ipertensione e un elevato livello ematico di colesterolo. I risultati ottenuti da un collega, John Barefoot della University of North Carolina, dimostrano inoltre che nei pazienti cardiaci sottoposti ad angiografia — un esame nel corso del quale un catetere viene inserito nell’arteria coronaria al fine di individuarne eventuali lesioni i punteggi ottenuti in un test sull’ostilità erano correlati alla misura e alla gravità della patologia coronarica.
Naturalmente, nessuno sta dicendo che la rabbia da sola possa causare una coronaropatia; essa non è che uno dei numerosi fattori interagenti. Come mi spiegò Peter Kaufman, del Behavioral Medicine Branch of the National Heart, Lung and Blood Institute: «Non siamo in grado di distinguere se la rabbia e l’ostilità abbiano un ruolo causale nelle prime fasi dello sviluppo della coronaropatia, se intensifichino il problema una volta che la cardiopatia sia già insorta, o — ancora — se abbiano entrambi gli effetti. Immaginiamo comunque un ventenne che abbia ripetuti attacchi di rabbia. Ogni episodio sottopone il cuore a uno stress ulteriore, aumentando la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Se ciò si ripete molte volte può arrecare danno», soprattutto perché la turbolenza del sangue che fluisce nell’arteria coronaria in corrispondenza di ciascuna sistole «può causare delle microlacerazioni vasali, nelle quali poi si svilupperà la placca. Se, a causa del suo abituale stato di rabbia, la frequenza cardiaca e la pressione ematica di questo individuo fossero superiori alla norma, dopo i trent’anni ciò potrebbe causare un accumulo più veloce della placca, e portare quindi alla coronaropatia».
Una volta che si è instaurata la cardiopatia, il meccanismo scatenato dalla rabbia influenza l’efficienza della pompa cardiaca, come era già stato dimostrato nello studio sui ricordi che innescavano l’ira nei pazienti cardiaci. Le conclusioni sono che la rabbia è un’emozione particolarmente nociva per chi è già cardiopatico. Ad esempio, uno studio condotto dalla Stanford University Medical School su 1012 uomini e donne che vennero seguiti per otto anni dopo un primo attacco cardiaco, dimostrò che l’eventualità di un secondo attacco mostrava la massima frequenza fra gli uomini più aggressivi e ostili. Risultati simili vennero ottenuti in uno studio della Yale School of Medicine condotto su 929 uomini sopravvissuti ad attacchi cardiaci e seguiti per dieci anni. La probabilità di morte per arresto cardiaco era di tre volte superiore nei soggetti ritenuti inclini alla rabbia rispetto a quelli più equilibrati. Se i soggetti presentavano anche un elevato livello ematico di colesterolo, il temperamento collerico comportava un rischio aggiuntivo di cinque volte superiore.
I ricercatori di Yale sottolinearono la possibilità che il rischio di morte per attacco cardiaco sia aumentato non solo dalla rabbia, ma da un’intensa emotività negativa di qualunque tipo, che sommerga regolarmente l’organismo con ondate di ormoni dello stress. Nel complesso, però, la correlazione più forte fra emozioni e cardiopatia riguarda la rabbia: in uno studio della Harvard Medical School vene ne chiesto a più di cinquecento persone di entrambi i sessi, tutte sopravvissute ad attacchi cardiaci, di descrivere il loro stato emotivo prima dell’attacco. La rabbia aumentava il rischio di arresto cardiaco portandolo a più del doppio nei soggetti già cardiopatici; il rischio, cosi aumentato, persisteva per circa due ore dopo che la rabbia era stata risvegliata.
Questi risultati non vogliono dire che dovremmo cercare di sopprimere la rabbia quando è nella giusta misura. Anzi, ci sono dati che indicano come il tentativo di sopprimere completamente quest’emozione, nella foga del momento si traduca in realtà in un’amplificazione dell’agitazione fisica e probabilmente in un aumento della pressione ematica. D’altra parte, sfogando la rabbia ogni volta che la si prova non si fa che alimentarla, aumentando la probabilità di reagire in questi termini a qualunque situazione fastidiosa. Williams risolve il paradosso concludendo che l’aspetto cronico della rabbia non è meno importante del fatto che essa venga espressa oppure no. Una sporadica esibizione di ostilità non fa male alla salute; il problema nasce quando essa diventa talmente costante da alimentare un atteggiamento antagonistico dell’individuo — un atteggiamento contrassegnato da costanti sentimenti di sfiducia e cinismo, dalla propensione a far commenti umilianti e maligni, come pure ad accessi più espliciti di rabbia e rabbia violenta.
Fortunatamente la rabbia cronica non deve essere necessariamente interpretata come una sentenza di morte: l’ostilità è un’abitudine che può essere modificata. Alcuni pazienti sopravvissuti ad attacchi cardiaci vennero arruolati dalla Stanford University Medical School affinché partecipassero a un programma ideato per aiutarli a smorzare la loro tendenza all’irascibilità. Questo addestramento al controllo della rabbia si tradusse in un’incidenza del secondo attacco cardiaco del 44 per cento più bassa rispetto a quella osservata in coloro che non avevano cercato di attenuare la propria ostilità. Un programma messo a punto da Williams ha avuto analoghi effetti benefici. Anch’esso, come quello della Stanford, insegna gli elementi fondamentali dell’intelligenza emotiva, soprattutto l’attenzione alla rabbia quando essa comincia a montare, la capacità di contenerla una volta che è stata innescata, e l’empatia. Quando si accorgono di averne, i pazienti devono mettere per iscritto i loro pensieri cinici o ostili. Se tali pensieri persistono, essi cercano di troncarli dicendo (o pensando) «Basta!». I pazienti vengono incoraggiati a sostituire intenzionalmente, nei momenti difficili, i pensieri cinici e sfiduciati con altri più ragionevoli; ad esempio, se l’ascensore tardasse, dovrebbero cercare di spiegarselo con una giustificazione benevola, senza covare risentimento verso un immaginario individuo menefreghista responsabile del contrattempo. Nel caso di interazioni frustranti, i pazienti devono imparare a vedere le cose dalla prospettiva dell’altro — l’empatia è un vero balsamo per la rabbia.
Come mi disse Williams: «L’antidoto contro l’ostilità sta nello sviluppare un cuore più fiducioso. Ci vuole solo la giusta motivazione. Quando le persone si rendono conto che l’ostilità può portarle alla tomba in anticipo, ecco, in quel momento sono mature per provare».
Da: Daniel Goleman, “Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici“, BUR, 2011.
Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici

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