Il conflitto relazionale non può essere evitato del tutto, dice Charlotte Joko Beck, ma va affrontato cercando di capire qual è l’azione più appropriata da compiere di volta in volta.
Ho appena ricevuto una telefonata da un’amica che sta morendo. Mi ha detto che le restano tre o quattro giorni di vita, e che voleva dirmi addio. La telefonata mi ha fatto ricordare la preziosità del gioiello che chiamiamo vita, e quanto poco la conosciamo e l’apprezziamo. E, anche se la conosciamo un po’, quanto poco ce ne prendiamo cura!
Alcuni, soprattutto vivendo in una comunità spirituale, immaginano che il gioiello della vita non abbia mai conflitti, liti o irritazioni, che sia pace e serenità. È un grave errore perché, se non capiamo come si genera il conflitto, rischiamo di rovinare la nostra vita e quella degli altri. Anzitutto dobbiamo capire che tutti abbiamo paura. La paura fondamentale, base di tutte le altre paure, è quella della morte. La paura del nostro annientamento induce comportamenti inutili, compreso il tentativo di proteggere la nostra immagine, il nostro io. Da questo sforzo di proteggerci nasce la rabbia, dalla rabbia nasce il conflitto, e il conflitto distrugge i rapporti con gli altri.
Non sto dicendo che una buona vita non debba avere discussioni animate né diverbi. Sarebbe una sciocchezza. Da ragazza conoscevo molto bene due famiglie, che erano in rapporti d’amicizia e passavano spesso il week-end insieme. I due mariti erano in competizione su tutto, ma specialmente durante la stagione dei pomodori. Entrambi facevano partecipare i loro pomodori migliori alla gara tenuta alla fiera locale. Le loro discussioni sui propri prodotti erano proverbiali: gridavano a voce tanto alta da far tremare i muri. Finiva che tutti e due vincevano il primo premio, ed era divertente vederli perché entrambi sapevano di litigare solo per gioco. La prova di un conflitto sano, di un maturo scambio di opinioni, è se il conflitto non lascia freddezze o amarezze, se non resta attaccamento all’idea: “Io ho vinto e tu hai perso”. Le discussioni vanno benissrmo se sono per gioco. Se invece abbiamo un diverbio con una persona cara e in seguito, anche se in teoria abbiamo dimenticato e perdonato, rimaniamo freddi e distanti, è l’ora di guardare più da vicino.
Si legge nel Tao Te Ching: “Il migliore atleta vuole l’avversario in forma. Il miglior generale conosce la mente del nemico. Il miglior uomo d’affari serve il bene comune. Il miglior capo segue il volere del popolo”‘ Queste persone conoscono perfettamente la competizione. Non si rifiutano di competere, ma competono nello spirito del gioco. Sotto questo aspetto sono come bambini, in armonia con il Tao. Se i nostri diverbi sono in questo spirito, è ottimo. Ma quante volte lo sono?
Una volta chiesero a Suzuki Roshi se la rabbia può essere come un vento puro che spazza via tutto. Rispose: “Sì, ma se fossi in te non starei a preoccuparmene”. Aggiunse che, personalmente, non aveva mai conosciuto un momento di rabbia che fosse come un vento puro. E non lo è neppure la nostra rabbia, a causa della paura che vi sta dietro. Se non entriamo in contatto e non sperimentiamo la paura, la nostra rabbia sarà distruttiva.
Un buon esempio sono gli sforzi per essere sinceri. La sincerità è la base della pratica. Ma che cos’è? Supponiamo di dire a un’altra persona: “Voglio essere sincero con te, e dirti come vedo il nostro rapporto”. Forse possiamo dire cose utili, ma il più delle volte lo sforzo per essere sinceri non viene da una vera sincerità, dallo spirito del gioco, dall’accettazione dell’altro, anche se pensiamo che sia così. Finché vogliamo avere ragione, finché vogliamo dimostrare o insegnare all’altro qualcosa, dobbiamo essere cauti. Finché conservano un pur minimo attaccamento all’io, le nostre parole sono insincere. Le parole vere nascono quando sappiamo che siamo arrabbiati, sappiamo che abbiamo paura, ma sappiamo aspettare. Dice un antico detto: “Hai la pazienza di aspettare finché la tua mente ritorna tranquilla e l’acqua è di nuovo trasparente? Sai rimanere immobile finché la retta azione sorge da sé?”. È un modo splendido per affrontare questo problema: possiamo restare zitti per qualche istante, finché non si presentino da sole le parole giuste, parole sincere, parole che non feriscono gli altri? Possono essere parole estremamente franche, che forse comunicano esattamente ciò che vogliamo dire. Possono persino essere le stesse parole che avremmo detto partendo dall’io, ma conterranno una differenza. Vivere così non è facile, e nessuno ci riesce in ogni momento.
La nostra prima reazione sgorga dall’autodifesa e dalla paura, poi salta su la rabbia. Ci sentiamo feriti nei nostri sentimenti, siamo impauriti, e ci irritiamo.
Se invece abbiamo la pazienza di aspettare che il fango (la mente) si depositi e che l’acqua ritorni trasparente, se rimaniamo immobili finché la giusta azione si presenta da sé, nasceranno da sé anche le parole giuste, senza che dobbiamo pensarci. Non avremo più bisogno di giustificare le nostre parole con un’infinità di ragioni, e non avremo nulla da spiegare. Se ci siamo stabilizzati, le parole giuste parleranno da sole. Ma non possiamo riuscirci senza una pratica sincera. Non occorre sederci nella pratica formale; a volte basta prendere un lungo respiro, aspettare un momento, sentire il nostro stomaco, e poi rispondere. Se invece il conflitto è più serio, possiamo avere bisogno di più tempo. Forse è meglio evitare di parlare per un mese.
I due uomini che litigavano per i pomodori non avevano intenzione di farsi del male. Nonostante le urla, non c’era intrusione dell’io. Giocavano a quel gioco da anni. I miei studenti mi parlano spesso di problemi con amici, di cosa è andato storto e di come intendono ‘raddrizzarlo’. “Mi ha fatto un torto, qualcosa che non doveva farmi; gli farò capire come mi sento”. A questo proposito, Gesù ha detto: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Tutti siamo in errore. Io sono in errore, voi siete in errore, noi siamo in errore. Ma l’io ci dice che solo l’altro è in errore. La maggior parte di ciò che chiamiamo comunicazione, nei momenti di conflitto si riassume nel dire all’altro dove sbaglia. Al che, ovviamente, l’altro ci dice dove sbagliamo noi. E così via, avanti e indietro. Non viene trasmesso niente di utile o di vero. Ci parliamo, ma siamo come due navi che filano nella notte.
Dobbiamo essere disposti a restare nella confusione e nel dolore, a lasciare che il fango si depositi finché non vedremo più chiaramente. Praticare così ci farà scoprire il prezioso gioiello della vita, e allora non ci saranno più liti. Potremo ancora avere diverbi, ma saranno giocosi come quei due che litigavano per i pomodori. Studiare a fondo la rabbia la fa scomparire. Come disse Dogen Zenji, studiare il Buddhismo è studiare se stessi, e studiare se stessi è dimenticare il sé. Quando la rabbia si dissolve nel vuoto, non vi sono più problemi, e la giusta azione si presenta da sé. Questo processo accelera nei ritiri intensivi. Il sé egoistico diventa trasparente, più chiaro, e ci permette di stabilizzarci. Quando il fango si deposita e l’acqua diventa più trasparente, possiamo vedere il gioiello come vediamo pesci e piante nell’acqua del mare dei tropici. Allora potremo pronunciare parole vere, opposte alle parole egocentriche che creano sempre disarmonia.
Da: Charlotte Joko Beck, “Niente di speciale. Vivere lo zen“, Astrolabio Ubaldini, 1994.
Niente di speciale. Vivere lo zen
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