Robert Wright – Non prendete troppo sul serio l’idea del Non Sé

non sé

Prendendo le distanze da sensazioni sgradevoli – come la tensione nella mascella per eccesso di caffeina, il mal di denti, l’ansia – una lezione che ho imparato sulla mia pelle è il paradosso del controllo. Tutti e tre, nella loro persistenza iniziale, insistente e molesta, dimostravano di non essere assoggettabili al mio controllo; anzi, al contrario, eventualmente erano loro che controllavano me! E secondo il concetto buddhista del «sé», la mia mancanza di controllo nei loro confronti dimostrava che non erano parte di me. Ma una volta che seguii quella logica – smettendo di vedere gli elementi che non riuscivo a controllare come parte di me – me ne liberavo e, in un certo senso, riprendevo il controllo. O forse, per esprimermi meglio: la mia mancanza di controllo su di essi smetteva di essere un problema.

Osservate quante volte ho usato i termini me, mia, mio nel paragrafo precedente: questo dimostra, forse, quanto cammino mi rimane ancora da percorrere per arrivare al non-sé. Mai, nel corso di queste esperienze o ripensando a esse, più tardi, mi sono avvicinato all’abbandono del concetto di sé. Ma restare aggrappato a un’idea di sé non mi ha impedito di ridefinire in modo radicale me stesso, il che potrebbe essere il primo passo verso il non-sé, chissà!

Forse è addirittura utile restare aggrappati per qualche tempo a un’idea del sé, perché questo potrebbe aiutarvi ad arrivare al punto in cui non credete più alla sua esistenza. Lo studioso Peter Harvey ha scritto: «È possibile, allora, notare che l’idea del Sé riveste forse un ruolo analogo a quello di un razzo che propelle una carica esplosiva nello spazio, opponendosi alla forza di gravità. Fornisce la forza per spingere la mente fuori dal ‘campo gravitazionale’ dell’attaccamento ai fattori della personalità [gli aggregati]. Fatto ciò, ‘si stacca e finisce bruciato’, perché di per sé è un concetto senza fondamento». In ogni caso, crede Harvey, l’insegnamento del non-sé «non è tanto una cosa a cui pensare, ma una cosa da fare».

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E chissà, forse anche il Buddha la vedeva in questo modo. Forse anche lui non cercava di formulare una dottrina ma di indurvi a seguire un cammino. Per condurvi lungo quel percorso aveva adottato la strategia di mostrare quali e quante sono le cose che si pensa facciano parte di sé senza che però sia così. Secondo questa prospettiva, il Buddha, nel suo primo discorso sul non-sé, non stava tenendo una lezione sulla metafisica o sul problema di mente e corpo, né su altri temi puramente filosofici; stava solo cercando di indurre i monaci a pensare alla propria mente in un modo che li avrebbe portati alla liberazione. Questo potrebbe spiegare quella parte di discorso che chi vede il sé come una sorta di CEO ritiene incomprensibile: che il criterio usato dal Buddha per definire una parte di voi non-sé sia il «non si trova sotto il vostro controllo», invece del «non ha il controllo». Forse con non-sé il Buddha intendeva semplicemente «che non è utile considerare parte del sé», o «con cui non identificarsi». In questo caso è come se dicesse: «Sentite, se c’è una parte di voi che non si trova sotto il vostro controllo e quindi vi fa soffrire, fate un favore a voi stessi, smettete di identificarvi con essa!» Questa interpretazione è coerente con il consiglio che prodiga verso la fine del discorso, quando dice che l’atteggiamento corretto nei confronti di ciascuno dei cinque aggregati è: «Questo non è mio, io non sono questo, io non sono così».

In un certo senso ci ritroviamo al punto di partenza, con il consiglio di Ajahn Chah sulla dottrina del non-sé: non pensateci troppo, fatelo e basta. Ma spero che pensarci vi sia stato utile. Più tardi sentiremo il parere di qualcuno che non ci ha solo pensato, ma ha anche fatto qualcosa; questo qualcuno dice che, dopo avere smesso di rivendicare il possesso di parti sempre più ingenti di quello che tradizionalmente consideriamo il sé, alla fine ha abbandonato tutto.

Ma per ora il consiglio che darei a chi si sta avvicinando alla meditazione è questo: non prendete troppo sul serio l’idea del non-sé. Forse il sentiero della meditazione vi condurrà, prima o poi, all’esperienza completa del non-sé, e arriverete a credere che, in un senso profondo e inafferrabile, lì dentro non c’è nessun «io». Fino ad allora, lasciatevi guidare dalle lezioni meno radicali presenti nel discorso sul non-sé del Buddha. Immaginate di avere, in teoria, il potere di stabilire una diversa relazione con i vostri sentimenti, pensieri, impulsi e percezioni, il potere di prendere le distanze da alcuni di essi; il potere di rinnegarne alcuni, in un certo senso, di definire i confini della vostra identità in un modo che li esclude.

Pensate alla possibilità di un certo grado di liberazione, e non preoccupatevi del fatto che questo potrebbe implicare l’esistenza di un sé da liberare. Vi sono cose peggiori di un sé da liberare.

Perché il buddhismo fa bene. La scienza e la filosofia alla base di meditazione e illuminazione

robert wright - Perché il buddhismo fa bene
'Perché il buddhismo fa bene' combina psicologia, filosofia, mindfulness, scienza ed esperienza personale. Attraverso un'analisi semplice e profonda l'autore rende accessibili a tutti concetti vertiginosi quali il vuoto o il non-sé e ci spiega come il Buddha abbia descritto migliaia di anni fa aspetti della realtà che gli scienziati stanno scoprendo solo ora. In questo viaggio, insieme contemplativo e pragmatico, la meditazione riveste un ruolo cruciale.
Paolo Subioli

Se uno come Robert Wright non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Ha fatto incontrare il Buddhismo con la psicologia evolutiva, aprendo nuovi filoni, estremamente interessanti, di studio del Dharma.

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[La foto è di Siora Photography, Regno Unito]

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