Superare il risentimento si basa sull’idea di rinuncia, dice Corrado Pensa, che non è rassegnazione, ma fare a meno dell’attaccamento al risentimento stesso, che ci impedisce di guardarlo con il dovuto distacco.
La parola rinuncia suscita scarso entusiasmo. Perché? Perché da un lato evoca eroismo e austerità, e dall’altro evoca amarezza e rassegnazione. «Ha rinunciato, ha dovuto rinunciare, rinuncio…», sono tutti termini colorati in un certo modo negativo. È vero che rinuncia è una parola che si è logorata, ma cominciano a essere consumati anche i suoi equivalenti contemporanei: lasciar andare, accettazione. Allora, consumato per consumato, usiamoli tutti, nel tentativo di equilibrare il termine tradizionale con i termini contemporanei. Usiamo pragmaticamente tutti i mezzi possibili, per capire e per capire bene.
Alla base della vera rinuncia c’è una comprensione fondamentale, perché la vera rinuncia deve nascere da comprensione. Se rinunciamo senza comprensione facciamo qualcosa di assolutamente controproducente, che rinforzerà ciò a cui rinunciamo. Otteniamo clamorosamente il risultato opposto.
La comprensione è quindi fondamentale, ma nell’insegnamento molto preciso del Buddha c’è un anello intermedio molto interessante. Questo anello intermedio si chiama nibbidā. Nibbidā è il sereno disincanto. Il sereno disincanto davanti alle lusinghe dell’avversione e dell’attaccamento. Quando cominciamo a sentirci meno convinti del l’avversione e dell’attaccamento, è allora che comincia a sorgere questo fattore di sereno disincanto. Anche disincanto può trarre in inganno, perché è un termine che può suonare negativo: «È cinico, disincantato». Qui parliamo di un’altra cosa, ed è molto preciso, molto importante usare la parola disincanto, perché c’è una seduzione da parte di tutto quello che è avversione e attaccamento, seduzione che, lavorandoci e comprendendola, può venire meno. Ma venendo meno ci lascia sereni, non ci lascia amareggiati. È un disincanto, ma un disincanto che rasserena: paradossale per l’io, ma è una realtà.
Prendiamo ad esempio l’attaccamento al risentimento. Potreste pensare: «Ma cosa sta dicendo? L’attaccamento al risentimento!». In realtà, basta aver praticato un po’ per accorgerci quanto siamo attaccati al risentimento. Il problema più profondo non è il risentimento, quanto piuttosto l’attaccamento al risentimento. Allorché cominciamo a vedere queste cose capiamo, probabilmente per la prima volta, l’insistenza del Buddha nel parlare continuamente di attaccamento. Se riusciamo a essere attaccati persino al risentimento, questo attaccamento deve essere davvero una dimensione da non trascurare!
Consideriamo un primo livello. In questo primo livello ci accorgiamo di provare un risentimento, ma non abbiamo più voglia di versare olio sul fuoco del risentimento. Questo è un piccolo esempio di disincanto. Se, avidamente, versiamo olio sul fuoco del risentimento, vuol dire che siamo incantati dal risentimento.
Poi possiamo passare a un livello più profondo, in cui lasciamo andare tutto il risentimento. Non ci limitiamo a non alimentarlo: è il risentimento che, essendo stato visto, cade. Questo livello è certamente più raro, perché presuppone che nibbidā, che il disincanto sereno che proviene dalla comprensione sia andato molto in profondità. Anche se questo è un livello più raro, abbiamo però la possibilità di verificare e riverificare, con molta precisione, questa realtà con i piccoli risentimenti. Se invece vogliamo cimentarci subito con grandi risentimenti, prendiamo la via sbagliata.
Mi viene in mente un meditante che, molto francamente, molto onestamente, disse: «Sì, ma, tutto sommato, questa faccenda mi dispiace, era meglio quando mi arrabbiavo». Quello che si era verificato non era una rinuncia nata da disincanto e da comprensione, bensì, cosa assai frequente, una repressione, una rimozione. Un certo maestro tibetano avrebbe detto: «Meglio se ti arrabbi, e poi chiedi scusa». Dire: «Non mi arrabbio e mi dispiace di non arrabbiarmi» è come stare seduti sull’orlo di un vulcano. Abbiamo messo un tappo, ma non abbiamo capito, non abbiamo visto la sofferenza non necessaria, tutto quello che comporta questo aspetto del risentimento. Abbiamo messo un tappo perché abbiamo sentito questi discorsi. Ma prima o poi il vulcano esploderà con violenza in un risentimento al quadrato, oppure imploderà in una depressione. Se vogliamo risparmiarci questi esiti cerchiamo di lavorare con i piccoli risentimenti, guardando molto bene il nostro attaccamento al risentimento e la sofferenza che provoca, anzitutto a noi.
Inutile dire che un grande risentimento, anche in chi pratica da tempo, anche investito nella maniera giusta di consapevolezza e comprensione, non si esorcizza in quattro e quattr’otto. Viene però come minato alla base, perché non c’è più questo continuo dargli potere, questo continuo dargli, in sostanza, fiducia. Fiorisce, invece, salutarmente, il processo di crederci di meno, sempre di meno…
Da: Corrado Pensa, “Attenzione saggia, attenzione non saggia“, Magnanelli, 2016.
Attenzione saggia, attenzione non saggia
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