Partecipare a un ritiro di meditazione – sulla base dell’esperienza raccontata da Robert Wright – ha una valenza molto diversa, rispetto alla pratica di meditazione quotidiana. Ecco come è andata.
Innanzitutto, la meditazione di mindfulness costituisce un buon allenamento. Vedere i vostri sentimenti consapevolmente mentre vi trovate su un cuscino da meditazione può aiutarvi a vederli consapevolmente nella vita di ogni giorno, il che significa che la vostra vita sarà meno in balia di sentimenti fuorvianti o poco produttivi. Trascorrete meno tempo a prendervela con gli automobilisti che (inspiegabilmente ignari dell’appuntamento importante per il quale rischiate di essere in ritardo) impiegano un paio di secondi a ripartire dopo che il semaforo è diventato verde; meno tempo a inveire contro i figli, il coniuge, voi stessi o chiunque altro si attiri le vostre ire; meno tempo a prendervela inutilmente per le offese che vi vengono fatte; meno tempo a concepire vendette contro i vostri aguzzini (non che tali fantasie non siano piacevoli!) e via dicendo.
Un’altra virtù della meditazione di consapevolezza è che può rendervi più sensibili alla bellezza. Questo effetto è più marcato durante un ritiro, quando meditate molto e l’isolamento dal «mondo reale» limita i motivi di preoccupazione, ansia e rimpianto. Con la connettività funzionale intrinseca privata di forza, è più facile restare a contatto con il presente.
Questo assorbimento più profondo delle sensazioni quotidiane può cambiare radicalmente la vostra consapevolezza. Il canto degli uccelli può apparirvi splendido. Le superfici più banali – mattoni, asfalto, legno – possono affascinarvi con la loro grana. Durante una passeggiata fatta nella foresta a metà ritiro, mi sorpresi a carezzare – sì, proprio a carezzare – il tronco nodoso di un albero. E, credetemi, non sono tipo da andare ad abbracciare gli alberi.
Più in generale, non sono neanche tipo da fermarmi ad annusare le rose. In un normale giorno lavorativo, ecco come pranzo: apro una scatoletta di sardine, prendo una forchetta, mangio le sardine direttamente dalla lattina in piedi davanti al lavello della cucina, getto via la scatola. Ecco, fine del pranzo.
Ma dopo i primi giorni di ritiro scoprii che anche il mio approccio ai pasti era ben diverso. Il che stupisce, visto che il cibo proposto era particolarmente spartano rispetto ai criteri normali: rigorosamente vegetariano, niente merendine confezionate e, quel che è peggio, cioccolato meno di una volta al giorno.
La prima volta che entrai nel refettorio durante il pranzo, rimasi sorpreso nel vedere moltissima gente mangiare a occhi chiusi. Poi, però, capii: eliminando l’input visivo, il gusto trasmetteva sensazioni che venivano recepite in modo assoluto. Il risultato era eccezionale. Un solo boccone di insalata, masticato lentamente, assaporato per apprezzarne non solo il sapore, ma anche la consistenza, poteva trasmettere quindici secondi di estasi o quasi. Immaginate un panino imburrato!
Al ritiro, anche le più banali esperienze visive assumevano una profondità teatrale. Ricordo di avere aperto una vecchia zanzariera e di avere avuto l’impressione di guardare un film, una di quelle scene in cui un’inquadratura in primissimo piano di un oggetto banale segnala che sta per succedere qualcosa. Naturalmente non successe nulla, a meno che non contiate l’esperienza visiva successiva, altrettanto profonda e impressionante. Una volta, durante quel primo ritiro, ero nella mia stanza, annotavo le mie osservazioni su dei foglietti e quando alzai lo sguardo sulla tenda abbassata scrissi questo: «Mentre scrivo questo appunto su un cartoncino, resto colpito dalla bellezza del motivo a chiazze disegnato dal sole che colpisce il foglio attraverso lo schermo degli alberi e della tenda. Mi sento drogato».
A proposito di farmaci: se devo tessere le lodi dei ritiri di meditazione, sono costretto a parlare anche dei possibili effetti collaterali. Il silenzio e l’isolamento che vi liberano dalle preoccupazioni quotidiane possono anche darvi il tempo di immergervi in altri pensieri, problemi personali o famigliari che lambiscono la vita di tutti i giorni senza però permanere a lungo. Inoltre, entrare a stretto contatto con il funzionamento della vostra mente può portarvi ad affrontare i pensieri con un’onestà nuova e, forse, inquietante. Il che è un bene, se ci pensate. Non è scopo del buddhismo fronteggiare la sofferenza invece di sfuggirle, e, affrontandola e osservandola senza battere ciglio, indebolirla?
Nella mia esperienza, di solito funziona. Durante i ritiri tendo a risolvere i problemi che mi assillano, acquisendo una prospettiva nuova e sana su di essi. Però la fase di risoluzione può essere laboriosa e intensa. A volte dico alle persone che affrontare un lungo ritiro di meditazione è come dedicarsi a uno sport estremo per la mente; alterna momenti sublimi ed estenuanti. Sono felice di affermare che nella mia esperienza il rapporto è 4 a 1.
Quando non sono in ritiro, e la mia meditazione mattutina dura trenta minuti (seguita talvolta da un’altra seduta più breve, nel corso della giornata), le ricompense sono meno evidenti. Nessuno dei miei vicini ha mai chiamato il pronto soccorso psichiatrico per avvisare che carezzavo gli alberi. Però, sempre che mediti ogni giorno, è facile che mentre porto a spasso i cani mi fermi e osservi la corteccia di un albero. Sono più incline ad assaporare davvero le sardine o, mentre le mangio, a vedere gli alberi fuori dalla finestra della cucina. A questo punto mi asterrò da un lungo discorso sull’importanza del «vivere nel presente» o dell’«essere nel qui e ora». Con tutti quelli, dai ministri di culto ai giocatori di golf, che predicano l’importanza dell’hic et nunc, credo che non ci sia bisogno del mio contributo sull’argomento.
Oltretutto, dare troppa enfasi a questo tema significherebbe sottovalutare il potenziale della meditazione di consapevolezza e, in un certo senso, indurvi in errore riguardo al senso profondo dell’insegnamento buddhista. Come ho suggerito nel primo capitolo, il Satipatthana Sutta – il testo antico conosciuto come il sermone delle Quattro Nobili Verità – non contiene esortazioni a vivere nel presente. Anzi, in tutto il testo non esistono termini che si possano tradurre con «ora» o «il presente». Questo non significa che «restare nel presente» non fosse parte dell’esperienza di meditazione dei buddhisti di due millenni fa. Se vi concentrate sulla respirazione o sulle sensazioni fisiche, come viene insegnato negli antichi testi di mindfulness, vi troverete nel presente. Però, se volete abbracciare interamente il buddhismo – se volete prendere la pillola rossa – dovete capire che restare nel presente, pur essendo parte integrante della meditazione di consapevolezza, non è lo scopo dell’esercizio. È un mezzo per raggiungere uno scopo, non è Io scopo in sé.
Da: Robert Wright, “Perché il buddhismo fa bene. La scienza e la filosofia alla base di meditazione e illuminazione“, Vallardi, 2018..
Perché il buddhismo fa bene. La scienza e la filosofia alla base di meditazione e illuminazione
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