L’insegnamento del Buddha è qualcosa di insolito fra le religioni del mondo, in quanto non è centrato attorno ad alcuna affermazione metafisica. Essenzialmente, il Buddha era un pragmatico, e perciò rivolse la sua attenzione principalmente su questa esperienza dell’insoddisfazione e della sofferenza, o dukka nel linguaggio scritturale. Era questo il suo punto focale. Nonostante fosse anche un teoreta, con un’immensa capacità di comprendere come funzionava il mondo, limitò il suo insegnamento a ciò che sarebbe stato pratico per la gente. Il suo approccio alla conoscenza del corpo e della mente somiglia più a quello di un medico che a quello di un ricercatore. Il Buddha si focalizzò sulle cose precise che ci aiutano su una base pratica, quotidiana, piuttosto che sull’intero campo della conoscenza.
Una volta propose una famosa analogia: si chinò a terra nella foresta dove stava passeggiando con alcuni dei suoi monaci, raccolse una manciata di foglie e disse: «Ci sono più foglie nella mia mano o nella foresta?». I monaci che erano con lui risposero: «Ovviamente il numero di foglie nella tua mano è molto piccolo e il numero di foglie nella foresta è molto, molto grande». Il Buddha rispose: «Allo stesso modo, ciò che so potrebbe essere paragonato alle foglie della foresta. Ciò che vi insegno è paragonabile a quello che tengo nella mia mano. E perché vi insegno soltanto un numero limitato di cose? Perché queste sono le cose che vi aiuteranno a portarvi felicità, a portarvi la vera pace, a portarvi la liberazione dall’insoddisfazione». Tutte le restanti possono anche essere vere, ma non hanno un’utilità immediata per guarire le malattie spirituali o psicologiche.
Il Buddha ricorse a un’altra analogia, quella del soldato ferito: un soldato viene colpito da una freccia avvelenata sul campo di battaglia. Accorre il chirurgo di campo e sta per estrarre la freccia, ma il soldato dice: «Oh no, non estrarre la freccia finché non avrai scoperto il nome della persona che mi ha colpito. Ho anche bisogno di sapere il nome del villaggio da cui proviene. Non solo, ho bisogno di sapere i nomi dei suoi genitori e dei suoi nonni, materni e paterni. Devo sapere il tipo di legno di cui fu fatta la freccia. Ho bisogno di sapere il tipo di punta di cui la freccia è stata dotata e com’è stata legata all’asta. Devo sapere il tipo di uccello da cui viene la penna. È la penna di un’oca? E la penna di un pavone? È la penna di un gallo? È la penna di un’anatra?». Il Buddha continua con questa lunga tiritera finché noi non afferriamo il punto: nel momento in cui il chirurgo avrà risposto a tutte le domande, il soldato sarà sicuramente morto. Il punto essenziale, disse, è estrarre la freccia e medicare la ferita. E su questo che si pone l’enfasi della tradizione buddhista, cercare di affrontare l’elemento centrale dell’insoddisfazione, la qualità del dukka.
Da: Ajahn Amaro, “Come le pratiche meditative buddhiste possono trasformare la comprensione del dolore, il potenziale della guarigione e il sollievo della sofferenza”, in: Dalai Lama,Jon Kabat-Zinn, Richard J. Davidson, “La meditazione come medicina”, Mondadori, 2015
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