Salvarsi dalla precarietà con l’esercizio

Viviamo in tempi in cui tutti dobbiamo fare i conti con la precarietà. Non solo i lavoratori, senza più alcuna certezza. Non solo i giovani, che a scuola studiano il riscaldamento globale. La precarietà, da fatto meramente materiale, diventa sempre di più una condizione psicologica. Ma c’è una via d’uscita.
Una via d’uscita possibile è nella pratica di consapevolezza. Lo ha messo bene in evidenza Massimo Tomassini, nel suo intervento su “Mindfulness e resilienza”, in occasione della First International Conference on Mindfulness, che si tiene a Roma in questi giorni. Ecco per prima cosa una sintesi del suo ragionamento, in parole il più possibile semplici.
L’incertezza e la precarietà hanno radici profonde nel nostro essere. Innanzi tutto, la mancanza di un vero e proprio sé: se andiamo a scavare, scopriamo che non esiste un sé (un nostro “io”) separabile dal resto della realtà. Ciò provoca comunque sofferenza, tanto più se non ce ne rendiamo conto. L’altro fenomeno difficile da accettare è l’impermanenza di tutte le cose, dentro di noi e al di fuori di noi. Per difenderci, mettiamo in atto due tipi di reazioni, entrambe distruttive: l’avversione (rifiutare la realtà, non accettare che è fatta anche di cose che non ci piacciono, consumando inutilmente energie) e l’attaccamento (mantenere la mente prigioniera di desideri e speranze, rispetto a ciò che ci sembra rassicurante e non vorremmo lasciare andare).
Dunque il problema della precarietà è prima di tutto dentro di noi, nella mente. Molto più di quanto pensiamo avvenga “oggettivamente” al di fuori, nella società. Ci identifichiamo talmente con l’idea che abbiano di noi stessi, che non riusciamo a capire quanto siamo inseparabili dalla realtà che ci circonda.
Come se ne esce? Con la Mindfulness, dice Tomassini: una pratica, basata sulla meditazione, di solito con finalità terapeutiche, che consiste nel “prestare attenzione, ma in un modo particolare: con intenzione, al momento presente, in modo non giudicante”, così da prevenire la sofferenza interiore e raggiungere un’accettazione di sé attraverso una maggiore consapevolezza della propria esperienza (sensazioni, percezioni, emozioni, impulsi, pensieri, parole, azioni, relazioni).
Tale pratica può aiutarci a capire le radici profonde della nostra precarietà esistenziale, accettare in pieno i nostri limiti e conoscere le risorse che abbiamo a disposizione, per confrontarci con una realtà che è sempre diversa da come ce l’aspettiamo.
Come fare
Come tradurre in concreto questi bei principi? Con una pratica costante e quotidiana. A titolo di esempio, per chi non segue un percorso strutturato di “Mindfulness”, ho selezionato da questo sito una serie di pratiche, che mi sembra vadano proprio in tale direzione:
- per meditare sull’impermanenza, oltre alla meditazione guidata sull’impermanenza, prova la meditazione del fiore, o anche solo la pratica di osservare il prurito; quest’ultima ti aiuterà anche a capire meglio l’avversione;
- per sperimentare “in diretta” cos’è l’attaccamento, prova a vedere la partita della tua squadra del cuore, dopo aver letto gli articoli su osservare le partite di calcio;
- capire il concetto di “non sé” non è difficile: procurati un’arancia (o un frutto di stagione) e mangiala, dopo aver letto la meditazione dell’arancia; il passo successivo è quello di godere l’esperienza di mangiare al bar; inoltre, puoi provare a metterti in contatto con le tue radici biologiche;
- imparare a lasciare andare è anche molto importante: puoi farlo già solo utilizzando il respiro, sedendo sulla panchina di un parco e persino quando vai al gabinetto a fare la pipì;
- ricordati infine le enormi qualità che già sono presenti in te, richiamandole alla mente o identificandoti con le qualità di stabilità ed equanimità di una montagna.
Per approfondire
Massimo Tomassini – Mindfulness e resilienza (pdf)
Consiglio pratico: clicca sul link col tasto destro del mouse e poi scegli la voce: “Salva destinazione col nome…”
[La foto iniziale è di Graeme Maclean]
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