Provi dolore? Con la ‘metta’ puoi evitare la seconda freccia, quella che fa più male

L’immagine della seconda freccia è tra le più popolari ed efficaci tra le molte tramandateci dal buddhismo. Di cosa si tratta? È una metafora utilizzata dal Buddha in un suo discorso, per spiegare come sia possibile evitare la sofferenza. A tutti capita di provare sensazioni spiacevoli, dice il maestro indiano, ma se uno di fronte al dolore fisico si oppone – lamentandosi, diventando triste o preoccupandosi – aggiunge un dolore mentale che lo fa soffrire doppiamente. È come se si tirasse una freccia ad un uomo, e dopo, ancora un’altra. La vittima proverebbe l’intenso dolore di due frecce, anziché quello più sopportabile di una sola.
Dunque il problema della sofferenza – con cui tutti nella vita abbiamo a che fare prima o poi – sta tutto nell’evitare la seconda freccia. La prima freccia – che si riferisce sia al dolore fisico sia a quello emotivo – è inevitabile, se abbiamo un corpo e una mente. La seconda freccia, invece, che è data da tutte le complicazioni che la mente crea attorno al dolore, possiamo evitarla, se nella nostra mente c’è saggezza e consapevolezza.
Un approccio molto interessante a questo tema è quello proposto da Ajahn Amaro – abate del monastero di Amaravati, in Inghilterra, della tradizione buddhista Theravada dei monaci della foresta – che ho avuto la fortuna di ascoltare nell’ambito di un incontro organizzato dall’Università di Roma “La Sapienza” dal Prof. Antonino Raffone.
Per evitare la seconda freccia, come riuscirebbe a fare un abile guerriero, Ajahn Amaro ci propone due strumenti centrali nel buddhismo: la gentilezza amorevole (mettā) e la saggezza. Sono due livelli difficili strettamente interconnessi e collegati tra loro, come vedremo più avanti.
La Mettā come accettazione radicale
La Mettā – una pratica classica di cui abbiamo parlato più volte – contempla un atteggiamento di apertura del cuore (“open heartedness”) e di accettazione (in questa pagina potete trovare un esempio molto semplice di Mettā, quello proposto da Thich Nhat Hanh). L’accettazione è un punto molto importante, perché per Ajahn Amaro la Mettā è una qualità non solo rivolta verso l’esterno (ad esempio, quando si rivolge la gentilezza amorevole anche a chi ci ha fatto del male), ma pure ricettiva. L’essenza della Mettā è anche il suo livello più alto, che è l’accettazione radicale.
Nel buddhismo la Mettā (gentilezza amorevole) è classificata tra le 4 dimore divine o 4 incommensurabili stati mentali (brahmavihara) – che esprimono la natura emotiva della mente illuminata – insieme a Muditā (gioia compartecipe), Karunā (compassione) e Upekkhā (equanimità).
L’accettazione non è uno stato passivo, ma un atteggiamento saggio. Se durante la meditazione provo sonnolenza o agitazione, semplicemente riconosco la loro presenza. Questa non è remissività, ma saggezza. Vogliamo lavorare col corpo e con la mente, non contro il corpo e la mente. Se i genitori desiderano che un bambino agitato si metta a studiare, agiscono con pazienza, non forzandolo.
Tramite l’accettazione radicale possiamo applicare la Mettā ai nostri stati mentali: rabbia, gelosia, attaccamento, paura, avidità. Questo non significa essere felici che ci siano, ma solo riconoscere la loro presenza, senza identificarci: la rabbia non sono io, è solo uno stato della mente.
Osservare le cose per quello che sono
Non identificarci non è facile, ma tramite l’esercizio costante della meditazione possiamo imparare a farlo. La consapevolezza “risvegliata” ci consente di ricevere e lasciare andare, di osservare in profondità i fenomeni così come sono. L’accettazione radicale è questa.
La saggezza e l’accettazione radicale si sostengono a vicenda, perché più sono in grado di vedere le cose così come sono, più sono in grado di accettarle.
Mi sembra chiaro che, quando si parla di accettare le cose per quello che sono, non si tratta di indifferenza, remissività o addirittura masochismo. Ajahn Amaro parla di “partecipazione non coinvolta” per indicare un tipo di osservazione che non è distaccata, ma partecipata, senza invischiarsi. Perché alla base di tutto c’è un modo saggio di vedere le cose, acquisito con la pratica, che può consentirci di non identificarci. In termini “buddhisti”, si parla in questo caso di comprensione del non sé (Anattā), una delle basi fondamentali per vivere una vita sicuramente più serena.
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Caro Paolo, ottima sintesi. Anch’io mi sono accorto di come sia più salutare questo atteggiamento rispetto alla sottile delusione di scoprire stati negativi e combatterli in modo non opportuno, che ha l’effetto opposto di rafforzarli