Meditazione dello scheletro bianco
Questa meditazione dello scheletro è una forma di pratica di origini molto antiche. È qui proposta come meditazione guidata, la quale ha come oggetto la visualizzazione del proprio scheletro imbiancato. A prima vista un po’ macabra, è in realtà una delle più rilassanti e pacificanti. Provare per credere. Essa consiste nella visualizzazione del proprio scheletro, osso dopo osso, e successivamente nella visualizzazione della trasformazione di tale scheletro prima, fino alla completa dissoluzione.
Una specie di postura yoga shavasana (“posizione del cadavere”) presa alla lettera.
È dunque una meditazione che ci consente di prendere contatto con la dimensione dell’impermanenza, prima di tutto, e poi del vuoto, una sensazione di vuoto che alla fine risulta rilassante, come capita alla maggior parte delle persone che vi si sono dedicate. Poi è certamente presente anche il tema della morte, ma come sapranno già i lettori di questo sito, la morte non è altro che una delle tante trasformazioni che subisce la persona. Non una fine dunque, ma una trasformazione.
Meditazione dello scheletro bianco: le origini antiche
La meditazione dello scheletro bianco è una pratica molto antica, di cui troviamo una descrizione nel “Discorso sui segreti fondamentali della meditazione”, uno dei più antichi testi del Buddhismo. Si tratta di uno dei primi testi sulla meditazione ad essere stato tradotto dall’indiano al cinese – nel II o II secolo dopo Cristo – e dunque tra quelli che hanno avuto la maggiore influenza sul Chan, la versione cinese del Buddhismo con elementi di Taoismo, la quale, arrivando in Giappone è diventata “Zen” (Chan e Zen derivano entrambi dalla parola sanscrita dhyāna, che significa “meditazione”).
La meditazione dello scheletro guidata da ascoltare:
Per approfondire:
A Study of the Meditation Methods in the DESM and Other Early Chinese Texts
Paolo Subioli – L’impermanenza ci fa scoprire il mondo eternamente nuovo
L’immagine
L’immagine associata all’articolo è un mosaico d’epoca romana che rappresenta uno scheletro con la scritta in greco antico ΓΝΩΘΙ ΣΑΥΤΟΝ, Gnōthi seautón, che significa “conosci te stesso”. Quest’ultima è una sentenza originariamente iscritta nel tempio di Apollo a Delfi, con la quale Apollo stesso avrebbe intimato agli uomini di «riconoscere la propria limitatezza e finitezza». L’invito a “stare al proprio posto”, a conoscere i propri limiti è quello mosso da Apollo a Diomede e ad Achille nell’Iliade; in quanto, come rammenta Apollo stesso, gli uomini non sono altro che «dei miseri mortali che, come le foglie, ora fioriscono in pieno splendore, mangiando i frutti del campo, ora languiscono e muoiono».
Tra i romani il motto era utilizzato quale ammonizione in merito alla finitezza dell’esistenza umana, e inserito nei “memento mori” (“ricordati che devi morire”) come quello raffigurato nel mosaico.
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Credo manchi il file audio da scaricare 🙂
Con quale dispositivo lo guardi, Luca?
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