È meglio meditare da soli o in gruppo?
Meditare da soli è la dimensione per eccellenza della pratica. Quando meditiamo, siamo soli con noi stessi e tutto ciò che conta avviene nel nostro corpo individuale e nella nostra mente. Anzi, il Buddha ha affermato che “tutto ciò che siamo è generato dalla mente”. Eppure chi pratica regolarmente lo fa anche in gruppo. La dimensione del gruppo, della comunità, del sangha, sembra imprescindibile dalla scelta di intraprendere la strada della pratica. Perché? Vorrei spiegarmelo brevemente alla luce della mia esperienza individuale, ma anche con l’aiuto di qualche maestro.
Proprio qualche giorno fa su questo sito è stato pubblicato un brano di Stephen Batchelor, nel quale il maestro inglese pone l’accento sull’importanza dell’amicizia nella pratica del dharma, cioè nella pratica di meditazione e di consapevolezza applicata seguendo gli insegnamenti dl Buddha. Il dharma, cioè l’insieme di tali insegnamenti, è stato tramandato nel corso degli ultimi 2.500 anni grazie a un gigantesco passaparola, un passaparola creativo basato su relazioni di amicizia e di fiducia. Come quelle tra maestro e allievo, certo, ma anche tra pari. Il buddhismo, infatti, a differenza delle vere e proprie religioni, è stato tramandato nel corso dei secoli in un’infinità di varianti, rese possibili proprio dal suo carattere aperto e non dogmatico. Tale carattere ha reso possibile che la trasmissione del metodo avvenisse non solo secondo le linee dinastiche degli ordini monastici, i “lignaggi”, ma anche in modo estremamente libero da normali monaci, laici, scrittori, artisti.
Meditare con gli amici
Oggi, nelle versioni occidentali della pratica buddhista, è normale che si formino gruppi per iniziativa di persone normalissime, che coinvolgono altre persone comuni per vedersi e praticare insieme, senza maestri o rapporti gerarchici. In queste relazioni da persona a persona vengono tramandate le tecniche, ci si raccontano le esperienze, ci si scambiano suggerimenti su letture o eventi d’interesse. Chiunque abbia frequentato un gruppo di meditazione ha potuto sperimentare di quale tipo di amicizia si tratti. Non è una forma di intimità, perché potrebbe darsi che non si sappia molto della vita privata dell’altra persona. Eppure le relazioni che si creano possono essere molto profonde, perché riguardano aspetti essenziali della vita, che hanno a che fare con la sofferenza e la felicità.
Dunque quando pratichiamo la meditazione con altre persone, anziché da soli, siamo in compagnia di qualcuno con cui condividiamo qualcosa di importante, All’inizio accostarsi alla meditazione può essere motivato semplicemente da curiosità, da un’intuizione, dal consiglio dell’insegnante di yoga o dal desiderio di “stare bene”. Poi, man mano che si procede nel sentiero della pratica ci si accorge che c’è molto di più, che la meditazione – e lo stile di vita normalmente associato alla meditazione – è una strada per conoscere la verità.
Rimanendo concentrati nel momento presente con metodo e costanza, si impara a instaurare un rapporto diretto con la realtà, nel tentativo di comprenderla per quello che è veramente e non interpretarla sulla base di schemi concettuali o di idee predefinite. Questa è esattamente il metodo indicato dal Buddha, che non esortava a raggiungere livelli speciali di ascesi, ma semplicemente a prendere contatto con la realtà per scoprire in se stessi le vere cause della sofferenza. Thich Nhat Hanh ha detto che il nirvana è nient’altro che liberarsi da tutte le idee e opinioni.
Cercare insieme la verità
Si pratica perciò la meditazione non per stare meglio o per essere delle persone migliori, ma per cercare la verità. La verità non per se stessi, ma per tutti. Siddharta Gautama, noto poi come Buddha, scoprì questa verità dopo anni di pratica intensa e grazie alle sue eccezionale capacità intuitive: la verità della strada che porta alla liberazione dalla sofferenza. Noi, se vogliamo scoprirla, anziché accettarla quale verità rivelata, dobbiamo cercarla nell’incessante esplorazione della nostra mente e del nostro corpo. È un lavoro un po’ individuale e un po’ collettivo. Ognuno dentro di sé trova una verità universale, valida per tutti.
Anche quando si pratica in gruppo, ognuno sta lì a osservare la propria mente e nient’altro. Immaginatevi la scena. Siamo seduti in dieci, venti o trenta persone a meditare e da fuori si sente abbaiare un cane. Qualcuno lo registra semplicemente come un suono, e nient’altro. Qualcun altro s’infastidisce e pensa che i cani andrebbero tenuti a bada per non disturbare il prossimo. A un’altra persona ancora quel verso ricorda l’abbaiare del proprio cane. E così via. Tutti ce ne stiamo immobili, con gli occhi chiusi, ma qualcuno è totalmente concentrato sul momento presente, qualcun altro pensa a cosa manca nel frigorifero per fare la spesa, mentre un altro ancora non ce la fa a non appisolarsi.
Un gruppo di persone che medita insieme vive nella situazione paradossale di trovarsi con gli stessi stimoli ambientali – in termini di suoni, odori, movimento dell’aria, temperatura, ecc. – ma vissuti in molti modi individuali diversi. Uno per ciascuna delle persone presenti. Da questo paradosso nasce uno dei valori aggiunti del gruppo, del sangha: la consapevolezza che è la nostra mente che costruisce la realtà e che dunque è necessario impegnarsi a osservare per capire come ciò avvenga.
L’energia del sangha
Quello che cambia, nella dimensione del gruppo, è proprio l’intenzione. Essere qui, nel momento presente, non solo per se stessi. Come dice Chandra Livia Candiani, è un procedere insieme, un risvegliarsi insieme. Ciò comporta anche che nell’ambiente della pratica si sviluppi anche un’energia speciale, che aiuta a mantenere la concentrazione e la motivazione.
Se gli incontri di gruppo sono episodici – ad esempio settimanali – probabilmente è meno facile mantenere la concentrazione rispetto alla pratica quotidiana. A casa propria, ciascuno può creare le condizioni che ritiene più adatte per sé. Sempre nella stessa posizione e nello stesso luogo, la mente può avvalersi come sostegno dell’energia dell’abitudine, una delle forze più potenti che la governa. Diverso è il caso dei ritiri, dove ci si trova tipicamente in gruppo, ma l’intensità e la durata della pratica è tale che l’abitudine si stabilisce presto. Qui più che mai si sviluppa quella speciale energia vitale di cui Parla Corrado Pensa, che fa sì che i partecipanti si salutino con la chiara consapevolezza di essere uniti gli uni agli altri da qualcosa di estremamente profondo.
In conclusione, meditare da soli e in gruppo sono due aspetti entrambi essenziali e insostituibili della pratica. Chi non ha la fortuna di avere un gruppo o sangha vicino casa per una frequentazione regolare, è bene che si rivolga a uno dei tanti centri di pratica che organizzano regolarmente incontri e ritiri di tutte le durate, dal singolo week-end fino a più mesi.
Per approfondire:
You need to login or register to bookmark/favorite this content.