L’arte non dualista di Henry Moore
In questo articolo spiegherò perché Henry Moore – celebrato in una bella mostra a Roma fino al prossimo 10 gennaio – può essere considerato un maestro di “non dualismo“. Il non dualismo è una corrente di pensiero che in Asia ha origini antichissime – ed è presente particolarmente nello Zen – mentre in Occidente è espressione di varie tendenze spirituali contemporanee, che trovano molte convergenze nella scienza moderna. Per il non dualismo la realtà è sostanzialmente unitaria, anche se si manifesta in un’apparente molteplicità, e non esiste una reale separazione tra il soggetto che osserva e l’oggetto osservato, tanti sono i legami che uniscono tra lo loro le due entità.
Henry Moore (1898-1986) può essere considerato il più importante scultore moderno, o quanto meno uno dei più influenti. I suoi corpi umani deformati e smembrati risentono a loro volta dell’influenza di altri artisti importanti come Picasso o Brancusi, ma anche e soprattutto della cosiddetta arte primitiva. La sua incessante ricerca sulle forme e sul loro rapporto con lo spazio lo ha portato a elaborare una poetica riconoscibilissima, nella quale le figure umane sono indistinguibili da forme naturali o ancor più archetipiche.
Ed ecco come Moore ci insegna il non dualismo.
Visione quale interpretazione
L‘arte moderna – negando la funzione naturalistica della rappresentazione – ha definitivamente sgombrato il campo dall’idea che la visione potesse essere un processo oggettivo, che esista una realtà data che tutti possiamo conoscere allo stesso modo. Quando Picasso dipinge le sue donne osservate contemporaneamente da più punti di vista (tanto da farle sembrare mostruose) ci dice semplicemente che è la mente a conoscere in modo soggettivo, deformando qualsiasi realtà. E così quasi tutti gli altri artisti moderni.
L’arte di Moore è una delle più alte espressioni di questo dono che ci ha fatto la cultura figurativa contemporanea. Moore ci insegna in particolare che i nostri modi di vedere la figura umana, la famiglia, gli elementi della natura, non sono altro che interpretazioni, in parte individuali, in parte collettive, influenzate non solo dalla cultura, ma anche dalle emozioni. Le sue strane forme ci svelano il nostro modo di vedere il mondo: è come se indossassimo di continuo occhiali deformanti.
Natura non separata
Il concetto moderno di “natura” equivale più o meno a un ambiente naturale composto da tutti gli esseri viventi del mondo eccetto l’uomo. Quando si parla di “rispettare la natura”, si intende che c’è l’uomo da una parte e la natura dall’altra. Questa dicotomia, che è alla base dei più drammatici problemi che oggi dobbiamo fronteggiare – come il riscaldamento globale – è l’apoteosi del dualismo. Gli artisti hanno sempre avuto una posizione più sfumata, ma dal XIX secolo in poi, grazie all’impressionismo, è potuta emergere con forza l’idea che la visione potesse essere un processo unico, nel quale uomini, animali e cose sono trattate nello stesso modo.
In Moore non c’è più distinzione tra esseri umani, animali e minerali. Tutto si offre alla vista e al tatto come pure forme che si compenetrano con lo spazio, nelle quali ogni discriminazione concettuale è ormai impossibile. Quest’arte sembra dirci oggi che tutto è parte di una medesima realtà.
Inconscio universale
Henry Moore nel 1968 disse:
Ho scoperto, quando disegno, che posso trasformare ogni piccolo scarabocchio, sgorbio o sbaffo in una madre col figlio.
Il tema archetipico della madre col figlio, anche in veste tragica, è molto presente nell’arte di questo scultore, il quale ha saputo più di ogni altro evidenziare con le sue opere quanto nella nostra mente, vista in una dimensione collettiva, siano presenti e vivi archetipi che vanno ben al di là dei nostri specifici rapporti familiari. Quanto siamo condizionati da una “coscienza deposito” nella quale sono sedimentate figure, ruoli e memorie che risalgono a molto prima della nostra nascita. Una scoperta che mette a nudo la fragilità della visione di noi come individui separati dagli altri uomini, sia nello spazio, sia nel tempo.
Onnipresenza di Dio
Tra i tanti possibili modi di credere in Dio c’è una gamma che spazia dalla visione più dualista, nella quale Dio è rappresentato in cielo come entità impersonificata che osserva il mondo da lontano, a quella meno dualista, nella quale Dio è presente ovunque e in ognuno.
Per Edward Conze (“Il pensiero del Buddhismo indiano”, edizioni Mediterranee, 1988) Henry Moore, sotto l’influenza della letteratura mistica giudaica, che ha definito Dio lo « spazio del mondo », identificò lo spazio con l’onnipresenza di Dio. Egli parlò di esso come d una « certa rappresentazione dell’essenza divina o presenza essenziale piuttosto confusa e vaga », una sostanza spirituale che è « unica, semplice, immobile eterna, perfetta, indipendente, esistente da sé, sussistente per sé, incorruttibile necessaria, immensa, increata, non circoscritta, incomprensibile, onnipresente incorporea, permeante, e abbracciante tutte le cose, essere essenziale, essere attuale, attualità pura ». Un concetto simile a quello buddhista di akasha, lo spazio infinito, onnipresente ed eterno.
Che ci si creda o meno, non c’è dubbio che da tale prospettiva la realtà non è in alcun modo divisibile, se non concettualmente.
Vedi anche:
Meditazione su un quadro di Matisse
Per approfondire:
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