Adottando la metafora della visione, la meditazione si presenta come una forma di «illuminazione»: un termine che significa appunto «veder chiaramente». Da qui nascono i vari esercizi con la vista, che, come al solito, hanno una duplice valenza: fisica e psichica.
In numerosi testi si raccomanda di focalizzare gli occhi al centro della fronte o sulla punta del naso; ma in realtà non si tratta tanto di guardare un punto specifico, quanto di adottare uno sguardo interiore. Di solito in meditazione si tengono gli occhi leggermente socchiusi, per accentuare la differenza rispetto allo stato di veglia (in cui sono del tutto aperti) e rispetto allo stato di sonno (in cui sono del tutto chiusi). Nello stesso tempo vanno tenuti fissi e immobili, per accentuare la differenza rispetto al terzo stato: quello del sogno a occhi chiusi. Quindi, la meditazione corrisponde a un «quarto stato» (turiya), contrassegnato da calma e da mancanza di dualità: «Per i saggi, il Quarto… è l’essenza fondamentale dell’atman» (Mandukya-upanisad).
Questa immobilità dello sguardo contrasta con la continua attività degli occhi e con il battere delle palpebre nella condizione normale di veglia. Vi è infatti un collegamento fra l’attività mentale e la mobilità dello sguardo. Nel Vedanta, la mente viene paragonata a una scimmia che non sta mai ferma, che passa continuamente da una posizione all’altra. L’incapacità di restare fermi, con il corpo e con gli occhi, significa agitazione e dispersività mentale. Gli occhi, in quanto «specchio dell’anima», seguono l’attività della mente.
Nella meditazione, lo sguardo viene tenuto fisso perché non si vuole osservare il mondo fenomenico, mutevole e multiforme, ma la dimensione dello spirito, che si trova al di là di questa attività mentale. Se si pratica l’esercizio del trataka, tenendo gli occhi immobili, senza batter ciglia, anche la mente tenderà a concentrarsi e a predisporsi a una visione che vuole andare oltre la superficie delle cose.
Si vuol vedere qualcosa che non è visibile allo sguardo comune, qualcosa che è presente tra un battito e l’altro, cioè tra un pensiero e l’altro. Questa immobilità viene di solito accompagnata da un arresto della respirazione (kumbhaka, v. più avanti) e da una convergenza degli occhi verso il centro della fronte o verso la punta del naso: tutte posizioni che favoriscono immediatamente il blocco del flusso mentale.
Lo stesso esercizio di fissazione dello sguardo e di convergenza degli occhi in un punto tra fronte e naso può essere eseguito a occhi chiusi, e in tal caso apparirà una macchia o un punto luminoso, il bindu, che è un’altra espressione dell’energia primordiale, il simbolo visivo dell’atman-Brahman, del centro dell’essere. Non si tratta di un prodotto dell’immaginazione, ma di un vero e proprio segno che appare nel momento in cui, ci si concentra nella visione interiore. È nello stesso tempo il punto, il «seme» originario (bija) da cui ha avuto origine l’universo e il suo marchio dentro di noi: di nuovo, dunque, una confluenza tra interiore ed esteriore, tra operazione simbolica e realtà.
Contemplando il bindu con la sua diafana luce, cogliamo contemporaneamente l’essenza del mondo esterno e l’essenza della mente, unite e coincidenti in quel punto. È come una finestra interiore da cui ci affacciamo per ammirare, senza parole, l’Origine, la Sorgente. Come dice la Chandogya-upanisad, «questo sé dentro il mio cuore, che è più piccolo di un grano di riso… o del centro di un grano di miglio, è più grande della terra, più grande dello spazio, più grande del cielo, più grande di tutti i mondi». Ma non può coglierlo chi non lo percepisca, chi non lo veda dentro di sé, chi non si immedesimi in esso. Lo si mediti, dunque, come luce interiore, nello spazio fra le sopracciglia, sede a sua volta dell’ajna-cakra, il centro della visione spirituale, il «terzo occhio». «Guardando tra gli occhi» dice la Gheranda Samhita «si vede il delizioso sé.»