
“Nessuno vuole morire, neppure quelli che vogliono andare in paradiso hanno voglia di morire per arrivarci. Eppure la morte è il destino che ci accomuna tutti. Nessuno è mai riuscito a sfuggirvi. È così come deve essere ed è probabilmente la miglior invenzione della vita. È un agente di cambiamento: spazza via il vecchio per fare largo al nuovo”.
Steve Jobs
Da un punto di vista zen, il cimitero è un posto come tutti gli altri. Perfettamente adatto alla meditazione. Per andarci di proposito a passare del tempo libero, però, bisogna superare un bel po’ di pregiudizi, di tabù e di paure, che abbiamo ereditato dal passato e inevitabilmente ci portiamo appresso.
Il problema principale sta nel nostro rapporto con la morte: sappiamo benissimo che, prima o poi, ci toccherà, ma non ne parliamo mai. Questo fa sì che la paura sia ugualmente sempre presente, ma lavori sotterraneamente, sovraccaricando la nostra vita con un’angoscia di fondo che ci rende difficile essere sempre sereni al cento per cento. Per far fronte a questo problema, nella tradizione zen è stata sviluppata una pratica quotidiana, le cinque rimembranze, che serve a ricordarci, tutti i giorni, le verità più scomode sulla nostra vita, in modo che, prendendoci confidenza, impariamo a non averne paura.
Pratica delle cinque rimembranze
La pratica consiste nel recitare questi versi, elaborati dal maestro zen Thich Nhat Hanh:
- È nella mia natura invecchiare.
Non c’è modo di sfuggire alla vecchiaia. - È nella mia natura ammalarmi.
Non c’è modo di sfuggire alla malattia. - È nella mia natura morire.
Non c’è modo di sfuggire alla morte. - Tutto ciò che mi è caro e tutti coloro che amo per natura sono soggetti al cambiamento.
Non c’è modo di sfuggire alla separazione da loro. - Eredito le conseguenze delle azioni che compio con il corpo, la parola e la mente.
I miei atti sono la mia continuazione.
Il fatto di non vederla mai, ci rende la morte ancora più terrificante. Al contrario, chi c’ha a che fare tutti i giorni – come medici e infermieri – ci fa in qualche modo l’abitudine. La nostra mente è fatta così. In quest’ottica, fare una visita al cimitero, senza avere uno scopo particolare, può diventare un’attività utile a prendere confidenza con una materia così scottante. Il cimitero è, del resto, la città con gli abitanti più mansueti che esistano, il più tranquillo dei posti che ci siano al mondo, un luogo di pace da cui è possibile trarre molto nutrimento benefico.
Un passeggiata al Verano
Camminando all’interno di un cimitero come quello del Verano, a Roma, ci ritroviamo immersi nella storia. Soprattutto quella più recente. Ci sono le tombe di molti ebrei, con la stella a 6 punte e, a volte, le iscrizioni in lingua ebraica. Quasi tutte le famiglie di questi ebrei hanno avuto dei membri deportati nei campi di concentramento nazisti. Il 16 ottobre del 1943, vennero portati a forza, da Roma ad Auschwitz, 1.022 ebrei, 200 dei quali bambini, e ne tornarono a casa solo 15. Quelle leggi razziali, e l’alleanza coi nazisti, furono volute da un regime che godeva del consenso di gran parte della popolazione. Anche loro, la maggioranza silenziosa, così come i fascisti più convinti, sono qui, nel cimitero. Tutti costoro sono la mia storia. Sono dentro di me. Senza gli ebrei deportati, ma anche senza i loro carnefici, io sarei una persona diversa. Oggi io sono la loro continuazione. Devo a tutti loro quello che oggi c’è nella mia mente e nel mio corpo. Il fatto che ora siano tutti sotto terra, e da un bel po’ di tempo, mi rende più facile osservare questo pezzo di storia con equanimità e riconoscere il destino comune che lega noi esseri umani, al di là delle divisioni, oltre le considerazioni di colpe e meriti.
Un’altra cosa che appare evidente, visitando questo cimitero, è la disparità nelle sistemazioni. Molti defunti sono stipati in aggregazioni “condominiali” ad alta densità, altri hanno il privilegio di una tomba a terra, magari ornata da bassorilievi e sculture a tutto tondo. Altri ancora hanno cappelle funerarie imponenti. Tutto ciò nonostante la morte sia uguale per tutti. Come sono evidenti le disparità tra le diverse classi sociali! E la nostra società non è molto diversa. Ecco un’altra eredità che i nostri antenati ci hanno lasciato: la diseguaglianza. La diseguaglianza ce l’abbiamo nel sangue, profondamente radicata, ed è per questo che ci riesce così facile accettarla, così come imporla. È sangue del nostro sangue.
Andare al cimitero significa perciò compiere un viaggio a ritroso nelle nostre radici e prendere consapevolezza del fatto che – nell’arco temporale che ci tocca di vivere – siamo l’anello di congiunzione tra il passato e il futuro. Riceviamo molte cose in eredità e altrettante ne trasmettiamo ai posteri. In grandissima parte lo facciamo inconsapevolmente, in parte cerchiamo di prendere coscienza di quello che – in questa catena ininterrotta tra generazioni, compreso quello che ci hanno trasmesso i nostri genitori – sarebbe meglio cambiare, lavorando prima di tutto su noi stessi.
Da: Paolo Subioli, “Zen in the City“, Edizioni Mediterranee, 2015.
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