Ansia da Coronavirus: il metodo Zen per affrontarla senza farmaci o psicoterapeuti

L’Ansia da Coronavirus sta rovinando la vita a decine di milioni di persone in tutto il mondo, Italia compresa. La prospettiva di un secondo lockdown è vissuta da molti con terrore, anche in relazione alle diverse situazioni personali, a volte molto difficili. Da chi ha dovuto richiudere la propria attività commerciale ai malati di cancro che non riescono ad avere assistenza; dagli anziani isolati alle donne costrette alla convivenza forzata con uomini violenti. Ma anche nei casi più ordinari, l’Ansia da Coronavirus è il sentimento prevalente. Le mascherine nascondono volti in preda alla paura, di fronte a un futuro estremamente incerto.
Ho molti amici psicoterapeuti e tutti mi raccontano di una epidemia del disagio, estremamente faticosa da affrontare, anche per loro. Il combinato disposto di una pandemia mortale, per la quale al momento non c’è cura, e dell’isolamento sociale, lascia poco spazio a stati d’animo positivi. Nessuno ha più il coraggio di stendere sul proprio balcone uno striscione con scritto “Andrà tutto bene”, accompagnato da un bell’arcobaleno disegnato da un bambino. Per misurare la diffusione di questo disturbo, è stata perfino messa a punto una scala dell’Ansia da Coronavirus, la Coronavirus Anxiety Scale (CAS), che misura quella che viene definita come “ansia disfunzionale associata alla crisi Covid-19”. Già con la prima ondata era emerso che il 22% della popolazione censita in un sondaggio fosse soggetto a un disordine specifico di natura ansiosa collegato alla pandemia. I sintomi erano lo stato di confusione (sentirsi frastornati, confusi, indeboliti), l’immobilismo tonico (sentirsi “paralizzati” o “bloccati”), i disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi, insonnia), lo stress addominale (nausea e problemi allo stomaco) e la perdita di appetito.
La situazione, in effetti, non è facile, ma come in tutte le situazioni difficili, mantenere la calma è sempre il requisito indispensabile per affrontarle al meglio. Ma come fare?
Il ruolo dell’informazione
Dal mio modesto osservatorio, del tutto privo di ogni velleità scientifica, noto che l’informazione ha un ruolo chiave nell’alimentare l’ansia. I media non parlano d’altro, e questo ci può stare, ma il punto è che oggi siamo sovraesposti all’informazione. Mentre scrivo questo articolo col mio computer, potrei ogni tanto dare una sbirciatina alle ultime notizie, per tenere sotto controllo la situazione. Se mi muovessi in auto, lo stereo si accenderebbe prima del motore, informandomi delle più recenti dichiarazioni del virologo di turno. Passando più tempo a casa – anzi, la quasi totalità del tempo – siamo più esposti alla televisione, che rimane per lo più accesa in sottofondo. La prima domanda che mi pongo è questa: c’è davvero bisogno di così tanta informazione? Dopo che abbiamo conosciuto i dati sulla diffusione della malattia, le misure imposte dalle autorità, le regole di comportamento da tenere, e magari anche qualche commento di personaggio autorevole, cambia veramente qualcosa il saperne così tanto?
La seconda domanda è: che effetto ha su di noi tale abbondanza di informazione? L’effetto non può essere positivo, visto che i contenuti di questo tipo di informazione sono per loro natura ansiogeni: malattia, morte, perdita di lavoro, isolamento, disperazione.
Un punto molto importante è il modo in cui viene data l’informazione. Oggi, grazie soprattutto alla prevalenza di internet nei consumi mediatici, si tende a dare molta importanza alle emozioni che l’informazione è in grado di suscitare. Diversi studi hanno evidenziato come ci sia una correlazione tra il modo di ricevere le informazioni online – fatto di brevi incursioni superficiali in contenuti diversi – e l’attivazione di zone del cervello, come l’amigdala, legate agli istinti primari, quelli della nostra componente più animale, come la paura o la necessità di distinguere, nel più breve tempo possibile, tra ciò che è innocuo e ciò che costituisce un pericolo per noi. Semplificando un po’ (ma non troppo), si potrebbe affermare che questo meccanismo è stata la fortuna dei politici populisti di questa generazione, che hanno potuto soffiare sul fuoco della paura per scalare il potere coi propri programmi basati sulla protezione a tutti i costi del proprio benessere.
I giornali di carta, che più di altri mezzi davano spazio alla riflessione e all’approfondimento, hanno dovuto soccombere, di fronte ai cambiamenti del mercato dell’informazione. Ma il problema principale io credo che sia la TV, la quale si è adeguata in pieno a uno stile giornalistico basato sul suscitare emozioni. Abitualmente non mi informo tramite i telegiornali. A casa mia non se ne vedono mai. Smettemmo di vederli quando, nel 1997, nacque nostro figlio, sapendo che l’esposizione dei bambini ai notiziari TV, anche nei primissimi anni di vita, è in grado di generare ansia. Un’ansia evidentemente del tutto gratuita. Poi ci abbiamo fatto l’abitudine, anche perché il silenzio è una droga benefica che dà un certo grado di dipendenza!
Quando in questo periodo mi capita di entrare in una casa dove è accesa la televisione, posso notare il carico d’ansia di cui è portatrice. So che sto generalizzando, ma per quello che ho potuto vedere, dominano decisamente i toni allarmistici, rispetto a quelli informativi. Perfino il tono di voce, e le tracce musicali usate come sigle, sembrano studiati apposta per metterci in uno stato di agitazione. Essere esposti a tale bombardamento quotidiano non può essere privo di effetti. Tra i miei amici, non mancano neanche i giornalisti, e tra di loro – esposti come sono all’informazione sul coronavirus – il disagio raggiunge livelli perfino più alti della media.
Affrontare l’Ansia da Coronavirus
Cosa fare, dunque? Il mio consiglio è quello di ridurre l’esposizione all’informazione, specie quella televisiva, che è la più influente sul nostro stato emotivo. Tanto non serve. Sono sufficienti pochi input, per sapere come stanno le cose. Limitando il consumo di informazione, salvaguardiamo la nostra salute mentale e, in tal modo, diamo un apporto positivo alla società nella quel viviamo, già oberata da tanti problemi.
Ma cosa c’entra lo Zen? C’entra, direi, perché ci insegna a guardare la realtà in modo “non dualista”. Quello dualista è il modo normale, che consiste nel vedere noi stessi come separati dal resto della realtà. Di qua ci sono io, di là ci sono i mezzi d’informazione. E no, non è così semplice! Nel momento in cui mi espongo a un flusso di informazioni, io ne divento parte. La mia mente non è qualcosa di statico, definita una volta per tutte, che elabora gli input che riceve come se fosse un computer. La nostra mente si crea di continuo, momento dopo momento, nell’interazione con il nostro corpo, con le altre persone e con l’ambiente nel quale è inserita. Quell’informazione alla quale sono esposto, entra a fare parte di me al 100 per 100. Non me ne posso separare.
Il non dualismo potrebbe risultare un concetto poco famigliare ai più, anche qui in Zen in the City se ne parla parecchio. Non vorrei richiamare antichi testi, o scomodare la memoria di Nagarjuna, il monaco buddhista indiano, vissuto nel III secolo dopo Cristo, filosofo e patriarca delle scuole Mahayana, che è considerato il padre di questa dottrina. Preferisco citare il mio maestro Thich Nhat Hanh, che ha scritto:
Ricorda: tu sei quello che scegli. Sei mai andato su una spiaggia all’alba, sei mai salito sulla cima di una montagna a mezzogiorno? Hai mai allargato le braccia e respirato a fondo, riempiendo i polmoni di fresca aria pura e di infinita immensità? Ti sei mai sentito il cielo, il mare, la montagna? Se il mare o le montagne sono troppo lontani, puoi sedere a gambe incrociate respirando tranquillamente e dolcemente: il mare, le montagne e tutto l’universo entreranno in te.
Per approfondire:
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