Perché meditare? Non serve quasi a niente

perché meditare

A cosa serve la meditazione? Una ricerca scientifica dopo l’altra ne mette in luce i benefici per la salute e nel frattempo viene sempre più usata per curare le persone o rendere più efficienti i rapporti di lavoro all’interno delle aziende. Dunque il crescente successo della meditazione deriva in buona parte dall’essere usata come strumento per ottenere qualcosa.

Eppure il fondatore di questa pratica, un tal Buddha, disse: «Io insegno su una cosa e una cosa sola: la sofferenza e la sua fine». Nonostante ciò, il destino delle tradizioni buddhiste potrebbe essere quello di finire incanalate, assieme a tutto il resto, nell’alveo del fiume utilitaristico. Potrebbe persino arrivare il giorno in cui il medico prescrive al paziente mezz’ora di meditazione prima dei pasti, o quello in cui l’azienda impone ai dipendenti corsi di mindfulness per aumentare la produttività.

Il professor David deSteno, della Northeastern University di Boston, ha provato a verificare se la promessa originaria della meditazione, cioè la fine della sofferenza, fosse empiricamente dimostrabile. Dunque col suo gruppo di lavoro, assistito anche da un neuropsicologo e un lama tibetano, ha fatto un esperimento reclutando 39 persone disposte a sottoporsi, per la prima volta in vita loro, ad un corso intensivo di meditazione di 8 settimane. A 20 di loro è stata data effettivamente questa possibilità, mentre le altre 19 sono state messe in attesa, senza partecipare ad alcun corso. Ecco com’è andata.

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Dopo le 8 settimane, abbiamo invitato i partecipanti in laboratorio, per un esperimento finalizzato a esaminarne la memoria, l’attenzione e le abilità cognitive correlate. Ma ciò che ci interessava veramente era capire se quelli che avevano meditato avrebbero dimostrato una maggiore compassione di fronte alla sofferenza. E così li abbiamo messi alla prova in una situazione nella quale non erano consapevoli che l’esperimento fosse già cominciato.

Quando un partecipante entrava nella sala d’attesa, trovava tre sedie, due delle quali erano già occupate, così si sedeva in quella libera. Mentre aspettava, entrava una quarta persona con le stampelle e un piede ingessato, la quale si metteva appoggiata alla parete, lamentandosi per il dolore e la scomodità. Gli altri due, anch’essi nostri collaboratori, la ignoravano, ponendo così il partecipante di fronte al dilemma morale sulla scelta se cedere il posto o meno.

I risultati sono stati impressionanti. Sebbene solo il 16 per cento dei non meditanti avesse ceduto la propria sedia, tale percentuale è salita al 50 per cento tra i meditanti. La differenza era impressionante non solo perché era frutto di appena 8 settimane di meditazione, ma anche perché ciò avveniva in un contesto sfavorevole, noto agli psicologi come effetto del passante: il fatto di vedere altri che ignorano una persona che soffre  riduce  le probabilità di intervento a favore di quella persona.

Secondo DeSteno l’esperimento non dimostra perché la meditazione abbia prodotto tali effetti, ma un paio di ipotesi si possono fare. La prima è che l’aumento delle capacità di attenzione, provocato dalla meditazione, renda più probabile il fatto di accorgersi di qualcuno che soffre. “Ma la spiegazione che preferisco”, dice David, “deriva da un altro aspetto della meditazione: la sua capacità di farci vedere che tutti gli esseri sono interconnessi. La maggiore compassione dei meditanti potrebbe dunque scaturire direttamente dall’abilità della meditazione di dissolvere l’artificialità delle differenze sociali – etniche, religiose, ideologiche – che ci dividono “.

[Ringraziamenti: a David deSteno, per il suo articolo sulla moralità della meditazione]

Per approfondire:

La meditazione in azienda si accorda col profitto

[La foto è di vicki watkins, Usa]

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Paolo Subioli

Insegno meditazione e tramite il mio blog Zen in the City propongo un’interpretazione originale delle pratiche di consapevolezza legata agli stili di vita contemporanei.

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9 risposte

  1. annafelice ha detto:

    Secondo me, la meditazione non serve ad ottenere risultati, ma a vivere con se stessi, ad accettare l’idea che siamo come pesci che cercano l’oceano, ad imparare, attraverso ii contatto che hai con te, che tu sei già felice e senza sofferenza. E se non soffri più, puoi essere compassionevole, interconesso, empatico

  2. marcello ha detto:

    Ciao a tutti.
    Vorrei aggiungere una piccola considerazione. E’ pur vero che la meditazione comporta una serie di “vantaggi” ben espressi nell’articolo, tuttavia la pratica formale non può essere disgiunta da quella, direi più complessa, informale. In quest’ultima, mi sembra assumere una posizione centrale la cura delle relazioni con gli altri e lo studio del Dhamma. Se non vogliamo che la meditazione “serva” solo a raggiungere dei risultati quali quelli evidenziati nell’articolo, e su questo convengo con l’amica annafelice di cui al precedente post, occorre ben altro.
    Con Metta.

  3. lorenzo giovannini ha detto:

    sono letteralmente scandalizzato non tanto dalla pochezza dell’esperimento, quanto dalle stupide premesse dell’articolo. Entrambe le cose dimostrano la manipolazione tentata da certa psicologia nei confronti del Dhamma.

  4. Massimo ha detto:

    La meditazione serve a tante cose. Il modo in cui serve lo trovate da soli. Saluti

  5. Massimo ha detto:

    Aggiungerei che forse avrei preferito una domanda del tipo ” quali sono le qualita’ generate ,espresse o connesse alla meditazione e al suo esercitarsi? Saluti

  6. nickmurdaca ha detto:

    Esperimento interessante ma, come tutti i test su un numero di persone molto limitato, rimane il dubbio se il risultato sarebbe stato identico se condotto su 390 persone o 3900, invece che 39…

    Nel mio caso, il problema nemmeno si pone perché se fossi stato la 40esima persona partecipante mi sarei alzato, come è successo in passato quando ancora non praticavo la meditazione (Zazen): circostanza in cui, a differenza delle persone che in quel momento erano presenti. delle quali evidentemente non posso sapere nulla riguardo le loro pratiche, nessuna di loro fece un gesto minimamente altruistico).

    Non penso che la compassione verso chi soffre, o è in difficoltà, sia direttamente proporzionale al fatto se si medita o meno. Credo che entrino in gioco qualità individuali ben più profonde come la storia personale, la cultura, l’esperienza e i modelli educativi.

  7. stella ha detto:

    Nikmurdaka penso che tu abbia ragione, semplicemente perché, chi si avvicina alla meditazione, probabilmente ha già una buona base. Come dire..una forte predisposizione all’umanità.
    Sicuramente persone estremamente sensibili, che con la meditazione leniscono l’anima e esplorano l’io.

    • Nick Murdaca ha detto:

      Stella, “persone estremamente sensibili, che con la meditazione leniscono l’anima e esplorano l’io” è una considerazione che mi piace molto; di una persona a sua volta estremamente sensibile (nel senso più bello del termine) rispetto all’argomento.

  8. Gaetano Ippolito ha detto:

    scusare ma come devo interpretare il titolo di questo articolo?
    non l’ho capito.. è ironia? o è vero che la meditazione non serve a niente?

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