Come mentiamo a noi stessi: meditazione sul non voler vedere la realtà

mentire a se stessi

Mentire a se stessi è una cosa molto più normale di quanto normalmente siamo portati a pensare. Mentire a se stessi, pur essendo implicitamente un controsenso, è la strategia che mettiamo in atto di continuo per non vedere ciò che è sgradito. È una pratica individuale, ma anche collettiva, a volte di massa. Gli esempi sono innumerevoli.

Vi ricordate quegli striscioni disegnati dai bambini, con un arcobaleno e la scritta “Andrà tutto bene”, durante la prima ondata di epidemia di Covid? Ne era piena l’Italia. Adesso nessuno ha più il coraggio di esporli. È successo ciò che era ampiamente previsto, ma abbiamo fatto finta di non vedere. Perché il nostro atteggiamento, molto spesso, è proprio questo.

Mentire a se stessi come strategia di evitamento

Passiamo la maggior parte della nostra vita a cercare di evitare ciò che non ci piace: le scomodità, il dolore fisico, le delusioni nei rapporti umani, la fatica, il lutto, la malattia, la morte. Desideriamo un’esistenza priva di problemi, nella quale tutto fili liscio o, più precisamente, nella quale tutto vada secondo le nostre aspettative. Una vita priva di dolore e di scomodità, dove i nostri desideri trovino prima o poi lo spazio per tradursi in realtà.

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Ma tutto ciò è impossibile. L’intera nostra esistenza è percorsa da episodi, piccoli e grandi, a noi sgraditi, che non riusciamo in alcun modo a evitare. È quella che viene chiamata la prima nobile verità insegnata dal Buddha, che dopo 2.500 anni fatichiamo ancora ad accettare. La vita è piena di cose che non ci piacciono, che si presentano di minuto in minuto, anche nei più piccoli dettagli.

Lo sforzo inutile che compiamo per evitarli è la causa principale della nostra sofferenza. Questa è la seconda nobile verità. La sofferenza di fondo che caratterizza la nostra vita è data proprio dalla nostra incapacità di accettare come normale ciò che è normale, e di volere evitare ciò che è inevitabile.

Ciò non significa che la vita è sofferenza e che dobbiamo per forza soffrire, ma che possiamo trovare la gioia in quello che c’è, senza bisogno di aspettare all’infinito che le cose vadano come pensiamo che dovrebbero andare.

Nella meditazione che vi propongo, esploreremo la nostra tendenza a voler evitare di continuo gli aspetti sgraditi della vita, che si traduce in uno sfuggire ripetuto al momento presente, a ciò che c’è qui e ora. Un qui e ora che non vogliamo vedere perché spesso non è ciò che ci aspettiamo o che vorremmo. Lo faremo nei dettagli, a partire dalle piccole cose, le più apparentemente insignificanti, quelle che di solito sono proprio l’oggetto della meditazione.

Quando siamo seduti in meditazione, operiamo di continuo degli aggiustamenti che ci allontanano dalla verità del momento presente, che ci fanno volgere altrove il nostro sguardo interiore. Osserviamoli insieme.

Meditazione sul non voler vedere la realtà

Assumiamo una postura consona alla meditazione, dunque rilassata e vigile allo stesso tempo, che possiamo mantenere invariata per una ventina di minuti almeno. Cercheremo infatti di rimanere immobili.

Ascoltiamo profondamente e unicamente per quello che è, senza aggiungerci nulla, il triplo suono della campana.

Mentre sono seduto in meditazione, osservo essenzialmente il respiro, che è e rimarrà, per tutto il tempo della pratica, il mio punto di ancoraggio al momento presente. Ogni volta che riporterà l’attenzione al respiro, tornerò a quello che c’è qui e ora, attraverso il respiro.

Portare l’attenzione al respiro è semplice, perché il respiro è un movimento in parte volontario e in parte involontario, che anche quando non ce ne accorgiamo è comunque presente.

Noi vogliamo soltanto osservarlo per quello che è, senza volerlo cambiare. Possiamo farlo nel modo che ci riesce più facile. Per esempio, osservando mentalmente l’aria che passa attraverso le narici, per entrare nel corpo, rimanere e poi uscire di nuovo per le narici.

Un altro modo molto immediato e semplice è quello di osservare l’addome, o pancia, che si alza e si abbassa con il movimento dell’aria. È la respirazione diaframmatica.

Oppure possiamo osservare il respiro nel petto, nel torace, proprio dove ci sono i polmoni che si espandono e si comprimono con il doppio movimento della respirazione.

Questa è la base della mediazione: osservare il respiro per poter essere aderenti a ciò che c’è nel momento presente, nel qui e ora. Nel frattempo, come ci siamo proposti, rimaniamo perfettamente immobili. Si muove soltanto quella parte del corpo che è impegnata nella respirazione.

Per il resto, non vogliamo muovere assolutamente nulla, nel più piccolo dettaglio del nostro corpo. Neanche la lingua all’interno della bocca, neanche i bulbi oculari sotto le palpebre, se teniamo gli occhi chiusi. Neanche una falange delle dita delle mani o dei piedi, neanche un muscolo contratto delle spalle, del collo o della schiena.

Rimaniamo perfettamente immobili, non perché siamo masochisti, ma perché vogliamo fare un esercizio, nell’esplorazione della nostra tendenza a voler cambiare le cose, a voler fuggire dalla realtà.

Ogni movimento che facciamo è una piccola – di solito insignificante, ma in questo caso importante – fuga dalla realtà.

Manteniamo sempre questa attenzione al respiro, alla posizione del corpo, mentre osserviamo che non ci siano parti del corpo che si muovono o che si vogliono muovere. Questa, essendo un cosa solo su noi stessi, possiamo vederla.

Magari scopriamo che, mentre all’inizio avevamo assunto una postura di mediazione che ci sembrava perfetta, nel frattempo la schiena si è un po’ ingobbita, ci siamo incurvati in avanti. Quindi cosa cerchiamo di fare? Sistemare la posizione, per tornare di nuovo a essere dei perfetti praticanti.

Non facciamolo! Osserviamo quello che c’è e basta. Vediamo se ce la facciamo a non aggiustare la posizione, a non voler essere performanti, a non voler essere perfetti, a non voler essere bravi.

Non vogliamo essere niente. Vogliamo solo osservare.

Torniamo al respiro, torniamo alla posizione del corpo, che è sempre disponibile.

Notiamo se all’interno della bocca la lingua riesce a starsene ferma. Osserviamo se le spalle riescono a essere più o meno rilassate, oppure combattono contro le contrazioni. Notiamo se il viso riesce a mantenersi in uno stato di rilassatezza equanime o accompagna con espressioni il nostro stato d’animo del momento.

Da osservatori sottili, notiamo non solo ogni minimo movimento perfino della più remota parte del nostro corpo, ma anche l’intenzione a farlo, il desiderio di cambiare le cose, di cambiare posizione.

Potrebbe esserci una posizione più comoda, rispetto a questa; forse avremmo potuto sederci in modo più comodo. Ma questo ora non è importante. Ciò che conta è quello che c’è adesso, niente di più e niente di meno.

Dopo 10, 15 minuti che pratichiamo, potrebbe sorgere qualche piccolo o grande dolore, magari un ginocchio che fa male, o la schiena. Il mio invito è a non cambiare le cose. Sopportiamo questo dolore. Tanto si tratterà molto probabilmente di una piccola cosa per un tempo anche breve.

Vediamo cosa succede quando c’è un dolore o un fastidio e invece di andarcene, invece di evitarlo o di voler cambiare le cose, ci restiamo, stiamo con quel disagio. Che succede?

Tornare a quello che c’è in questo momento, qualsiasi cosa sia.

Vedere quello che c’è, in piena onestà.

Non giocare alcun ruolo, non voler essere nessuno.

Questo è il movimento fondamentale della meditazione. Tornare al momento presente, al qui e ora, con totale onestà, senza occultare nulla della verità, senza cercare di evitare parti di noi che ci risulterebbero sgradite.

Rimanere immobili nella maniera più assoluta è l’esercizio per ottenere ciò, e per vedere quanto ora siamo in grado o meno di aderire a questo movimento fondamentale, a questo atteggiamento.

Ad ogni modo non stiamo cercando nulla, non vogliamo ottenere nulla. Stiamo solo osservando nel piccolo, nel microscopico, nell’apparentemente insignificante, quello che è il nostro atteggiamento spontaneo.

Adesso passiamo alla seconda parte dell’esercizio, nella quale, sempre mantenendo l’immobilità assoluta, sempre osservando il nostro eventuale impulso ad aggiustare la posizione, osserviamo un altro movimento di fuga dalla realtà, che è quello che facciamo attraverso la mente.

Mentre siamo impegnati a osservare il respiro in ogni dettaglio, e a osservarlo nel corpo, nella concretezza del corpo, e mentre cerchiamo di mantenere al lungo questa attenzione, questa concentrazione sul fenomeno del respiro, ci accorgeremo che in realtà non ci riesce così facile farlo, perché facilmente si sovrappongono pensieri a questa attenzione al respiro: pensieri astratti, ragionamenti, progetti per il futuro, ricordi, anche del passato molto recente.

Quello che facciamo è in realtà di portare la nostra mente altrove, anziché farla rimanere qui con quello che c’è.

La mente è impegnata a pensare cosa dovremo cucinare stasera, magari; quel fatto di cui ho letto stamattina tra le news; quella riflessione su chi sono e come sto praticando. Pensieri, ricordi, progetti, che sorgono mentre mi sono posto l’obiettivo di osservare unicamente ciò che c’è nel presente.

Vediamo quali di queste forme di distrazione, di sviamento, di depistaggio dalla realtà, metto in atto più frequentemente, per poter non vedere ciò che c’è in questo momento, qualsiasi cosa sia.

A volte, se non siamo proprio distratti dai pensieri del tutto astratti, ci concentriamo su attività del pensiero operativo. Organizziamo cose, programmiamo, risistemiamo, come se questo genere di pensieri fosse più legittimo di altri. Ma questo ci porta a non osservare ciò che c’è veramente, come stiamo veramente.

L’osservazione prolungata e profonda delle sensazioni del copro ci porta a comprendere qual è lo stato d’animo nel quale ci troviamo. Ma a volte questo stato d’animo non ci piace, e allora pensiamo. Portiamo la mente altrove.

Stare con ciò che c’è veramente in questo momento, qualsiasi cosa sia, può essere fonte di gioia, ma anche di dolore, può significare piacere, ma anche noia, può portare agio, ma anche fastidio.

Stare con quello che c’è è un’impresa estremamente difficile, se vogliamo mantenerla a lungo e in modo continuativo. Possiamo vederlo proprio attraverso questa pratica. È la nostra tendenza a sviare, a depistare. Mentre la Verità, con a V maiuscola, è qui, nelle semplici sensazioni del corpo in questo momento. Non c’è nessun altra verità.

Questa è la verità profonda dell’esistenza, della nostra natura umana. Quello che stiamo facendo adesso, questa esplorazione della realtà, questa ricerca della verità, non la intraprendiamo per essere delle persone migliori, per il nostro benessere, per avere meno stress. Cerchiamo la verità non per noi stessi, ma per tutta l’umanità, per tutti gli esseri, anche non umani.

Con questo proposito nel cuore, ci apprestiamo ad accogliere  l’ultima realtà che questa pratica ci presenta, cioè la sua fine, con un suono di campana.

[La foto è di PickPik]

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Paolo Subioli

Ho scritto questo libro per condividere ciò che ho imparato nell’ambito della mia pratica quotidiana, grazie agli insegnamenti dei maestri, ma anche e soprattutto dell’esperienza diretta.

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N. pagine: 196
Smartphone, tablet e pc non sono più meri strumenti al nostro servizio, ma vere e proprie estensioni dei nostri corpi e delle nostre menti.  Essendo parte di noi stessi, devono diventare elementi di crescita. Attraverso il percorso della Digital Mindfulness viene affrontato il tema della consapevolezza del rapporto con i media digitali, proponendo piccole pratiche quotidiane, spazi di riflessione, momenti di riequilibrio per migliorare la nostra vita e quella degli altri.

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Paolo Subioli

Insegno meditazione e tramite il mio blog Zen in the City propongo un’interpretazione originale delle pratiche di consapevolezza legata agli stili di vita contemporanei.

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Una risposta

  1. Emanuele Russo ha detto:

    Grazie come sempre Paolo, questo articolo mi ha davvero ispirato

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